Recovery Fund, un socialismo di guerra che blocca la società
Con il Recovery Fund, l'Unione Europea cerca di rilanciare e modernizzare i paesi europei, e il Piano di Ripresa presentato dall'Italia dovrebbe essere un esempio. Ma il metodo è quello di un socialismo di guerra, calato dall’alto in modo dirigistico-accentratore. Buona parte degli obiettivi dichiarati - transizione ecologica, digitalizzazione, cultura gender - sono essenzialmente ideologici e non colgono minimamente le vere esigenze per far ripartire l'economia, a cominciare dalla famiglia. Quanto al finanziamento è ancora un grosso debito che si tramuterà in aumento di tasse. C'è poco da stare allegri.
Con l’approvazione del “Quadro finanziario pluriennale 2021-2027” e del Piano di rilancio europeo denominato NextGenerationEU (il cosiddetto Recovery Fund) il 10 dicembre 2020 l’Unione Europea ha raggiunto l’accordo sullo stanziamento di un totale rispettivamente di 1.074 miliardi di euro di investimenti pubblici strategici a cui si assommano i 750 miliardi del Recovery Fund. L’obiettivo della Commissione Europea, come affermato dalla sua Presidente, Ursula von der Leyen, è quello di «modernizzare e rendere più resilienti, verdi e digitali i sistemi economici europei», con un bilancio alimentato per la prima volta dal debito comune. Vengono così definite le linee guida che dovranno seguire gli investimenti pubblici – e privati – negli anni a venire. L’Italia ha presentato il proprio piano di attuazione (il Piano nazionale di ripresa e resilienza - PNRR) rispettando in extremis la scadenza prevista del 30 aprile.
Al di là dei numeri, su cui si dovranno fare approfondimenti – sia con riferimento al piano europeo sia a quello italiano che inevitabilmente si inscrive al suo interno – possiamo fin d’ora fare tre considerazioni di ordine generale, in termini di:
- METODO: chi decide cosa? come e quando si implementa? chi controlla?
- OBIETTIVI: che cosa e quanto? in quale direzione? con quale priorità?
- MEZZI: chi paga?
I tre punti sono ovviamente fortemente interrelati: il metodo influisce sugli obiettivi e gli obiettivi sul metodo, ed entrambi sono condizionati dai mezzi utilizzati.
1) A livello di METODO l’approccio europeo, e a cascata inevitabilmente anche quello italiano, è di tipo top-down, una sorta di socialismo di guerra calato dall’alto in modo dirigistico-accentratore. Gli Stati fanno un ulteriore passo in avanti rispetto alla società civile e sono essi stessi in parte superati da una rafforzata governance europea. Al di là degli aspetti liberticidi di tale approccio, occorre sottolineare come nessun pianificatore centrale – per quanto “illuminato”, tecnicamente preparato ed esente da conflitti di interesse – disponga ex-ante di tutte le informazioni necessarie per prendere le decisioni più efficienti ed efficaci, con la flessibilità poi di adattare nel tempo i propri piani e le proprie strategie implementative al variare, inevitabile, della situazione col passare del tempo.
La mancanza di umiltà e la pretesa di onniscienza rendono ideologico-utopistico il progetto già prima ancora di esaminarne i contenuti: uno dei rischi, ad esempio, è quello di sprecare ingenti risorse in cattivi investimenti (mi ero ripromesso di non citare più i banchi con le rotelle e i monopattini elettrici ma la tentazione è troppo forte!); un altro rischio evidente, accentrando la gestione di decine di miliardi di euro, è quello di aumentare le logiche clientelari e il potere dei vari enti locali, imprese pubbliche, ecc., in un mix e un intreccio perverso di statalismo e di capitalismo clientelare. Senza trascurare gli effetti distorsivi sulla concorrenza, che dovrebbe essere libera e leale, mentre così viene falsificata.
Sul fronte politico, il Piano vincolerà anche i governi futuri, diminuendo sempre più la sovranità nazionale, per lustri a venire. La sospensione della libertà e responsabilità economica a cui siamo stati abituati post-Covid proseguirà indefinitamente, e ciò non è sano né per la crescita economica né per quella sociale.
Un altro tema poi è relativo alla valutazione dei risultati: anche ex-post sarà praticamente impossibile fare un bilancio dei costi-benefici perché si vedranno solo gli effetti di ciò che sarà stato fatto ma non di ciò che si sarebbe potuto fare se le risorse utilizzate fossero state lasciate ai privati e non gestite politicamente. Ė il grande tema esposto dal geniale economista francese, Frédéric Bastiat (1801-50), nel suo celebre saggio “Ce qu’on voit et ce qu’on ne voit pas”. Per non parlare poi delle «conseguenze non intenzionali delle azioni umane intenzionali» di cui hanno scritto diffusamente gli economisti austriaci Carl Menger (1840-1921) e Friedrich von Hayek (1889-1992), evidenziando il rischio di produrre risultati molto differenti dagli obiettivi che si vorrebbe realizzare ex-ante. Perseguendo il miraggio del cosiddetto «perfettismo» – da cui aveva già messo in guardia il filosofo e politologo Beato don Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) nel suo La Filosofia della politica – si finisce in genere col peggiorare la situazione. Come recita l’adagio popolare, «di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno». Si fa in fretta a dire “cronoprogramma”: le Nuove Politiche Economiche, la storia insegna, arricchiscono generalmente solo le Nomenklature.
2) A livello di OBIETTIVI occorre evidenziare che molti degli scopi delineati, anche se ovviamente non tutti, sono viziati da pregiudizi ideologici, come d’altronde l’Agenza ONU 2030 sul cosiddetto «sviluppo sostenibile» che rappresenta la grande cornice di riferimento a livello di governance mondiale. Si va dall’ipotizzata “emergenza climatica di origine antropica” – da cui l’imperativo del Green Deal di de-carbonizzare le economie europee entro il 2050 – alle tematiche gender e alla cosiddetta “inclusività sociale”, con afflati assistenzialistici e paternalistici. Molti obiettivi, prescindendo per un attimo dal metodo errato, possono anche essere condivisibili, come per esempio l’importanza dell’innovazione tecnologica e digitale; nel piano della Commissione, e nel piano attuativo italiano, non si riconoscono però i veri problemi che affliggono l’Europa, e l’Italia: la crisi della famiglia, il collasso demografico (che trova un semplice accenno nel PNRR col rinvio al Family Act), l’oppressione fiscale, la decadenza culturale frutto del rinnegamento delle radici cristiane che hanno costituito storicamente l’Europa. La cultura che ispira il progetto è diametralmente opposta.
Un’analisi della frequenza delle parole utilizzate nel documento è illuminante. Da un lato, ci sono i temi su cui si punta: digitalizzazione (310 volte), sostenibilità (214), pubblico (204), rivoluzione verde e cambiamento climatico (200), transizione (142), ripresa e crescita (138), politica/che (125), giovani (121), genere (76), giustizia (72), resilienza (71), sud (70), scuola (58; senza citare mai le paritarie), controllo (40), pianificazione (34). Dall’altro, temi evidentemente ritenuti poco interessanti: debito (14 volte), investimenti privati (12), invecchiamento/natalità (12; c’è un riferimento all’assegno unico universale e al Family Act a pag. 78 ma siamo ancora in attesa dei decreti attuativi), pressione fiscale (7), libertà (3), sussidiarietà (1).
Certo, le parole andrebbero non solo contate ma anche pesate; eppure anche una lettura così superficiale conferma che il metodo è dirigistico/accentratore e che i contenuti sono in parte ideologici: una governance europea e, in seconda battuta, degli Stati dell’area, con una “cabina di regia” accentrata, con una totale mancanza di attenzione per la sussidiarietà, per il privato, per la libertà economica, per la scuola paritaria, per la famiglia e il collasso demografico degli ultimi decenni, per i danni dell’invadenza pubblica e dell’oppressione fiscale.
Avremmo desiderato uno Stato che facesse un passo indietro; nell’ «era post-pandemica» del New Normal, invece, la crisi – e la sua gestione da parte dei pubblici poteri – fa fare allo Stato due passi in avanti, nella prospettiva di una governance sempre più lontana dalle famiglie e dalla società civile. Il Grande Reset, insomma, sta per entrare in una nuova fase: dopo quella monetaria e quella sanitaria arriva ora anche quella fiscale, un futuro distopico da “Stato assistenzialistico” del Nord-Europa in cui l’autorità pubblica si prende cura di tutti i bisogni del cittadino “dalla culla alla bara”. Purché questi rinunci alla propria libertà e si lasci docilmente guidare dagli “esperti”…
3) A livello di MEZZI occorre evidenziare che si tratta di investimenti finanziati a debito e i debiti sono sempre delle “tasse differite” che andranno a gravare sui contribuenti europei e italiani negli anni a venire. Ci attendono quindi nuove tasse, in Italia probabilmente a carico degli immobili, iniziando dalla revisione (leggasi innalzamento) degli estimi catastali, senza escludere poi la paventata reintroduzione dell’IMU sulla prima casa. I benefici dei piani pubblici andranno a chi sarà più vicino ai rubinetti della spesa; i costi, invece, li pagheremo tutti.
La prospettiva verso cui l’Europa sta muovendo è quella di ridurre la sovranità degli Stati membri, puntando alla costituzione di un «Ministero del Tesoro comunitario», come evocato da Mario Draghi al 41° Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione dello scorso agosto, un primo passo per accelerare nella direzione degli “Stati Uniti d’Europa”, grazie al CoViD-19. L’interventismo fiscale statale post-Covid, con politiche di investimento sempre più centralizzate, va quindi a chiudere il cerchio completando il dirigismo europeo già operativo da oltre un lustro con le politiche monetarie di easing quantitativo attuate dalla Banca Centrale Europea. Con buona pace di chi denuncia i rischi di un “capitalismo selvaggio”!
Crescita ancora a debito, quindi, con linee guida decise dall’alto e “cabine di regia” politico-tecnocratiche molto ristrette: il Parlamento, la società civile, il mondo delle piccole e medie imprese sono fuori dalla stanza dei bottoni. I timori di un uso dissennato delle risorse sono concreti, come si avverte dalle stesse parole usate dal Presidente Draghi nella presentazione del documento alla Camera: «sbaglieremmo a pensare che il Pnrr sia solo un insieme di progetti, numeri e scadenze […] Nell'insieme dei programmi c'è il destino del Paese, la misura di quello che sarà il suo ruolo nella comunità internazionale, la sua credibilità e reputazione come fondatore della Ue e protagonista del mondo occidentale. È questione non solo di reddito e benessere, ma di valori civili e sentimenti che nessun numero e nessuna tabella potrà mai rappresentare. Dico questo perché sia chiaro che ritardi, inefficienze e miopi visioni di parte peseranno sulle nostre vite e su quelle dei nostri figli e nipoti. E forse non ci sarà più il tempo per porvi rimedio».
Al di là limiti del PNRR evidenziati – a livello di metodo, obiettivi e mezzi impiegati – ciò che colpisce è l’assenza di consapevolezza dei danni provocati al Paese dalla strategia di lockdown generalizzata. Appare anche del tutto inadeguata l’attenzione alla crisi demografica italiana, ed europea, che rappresenta il vero nodo da sciogliere per portare in equilibrio i sistemi sanitari, assistenziali e pensionistici e tornare davvero a crescere, senza l’aiuto di droghe monetarie o di continui nuovi debiti o di dirigismo statalistico. Perché a nessuno viene in mente di mettere al cuore del Piano di ripresa e resilienza la famiglia e la natalità, insieme alla valorizzazione effettiva della libertà economica? Ma la domanda, ovviamente, è ingenua…