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CECITÀ A PALAZZO CHIGI

Assegno unico: agire sugli effetti può essere dannoso

Ė positivo che il governo si sia finalmente reso conto della gravità della situazione demografica approvando misure per la famiglia, ma i dati dimostrano che la crisi della natalità non è mero frutto di quella economica. Non basta quindi dare la paghetta di Stato ai figli e magari il reddito di cittadinanza ai genitori. Un intervento sulle conseguenze e non sulle cause può dare un sollievo momentaneo, ma a lungo andare generare dipendenza e quindi malessere.

IL BONUS BEBE' DI AGENZIA NOVA di Stefano Magni

Economia 12_04_2021

Dopo avere già ricevuto il via libera della Camera, il 30 marzo anche il Senato ha approvato con un voto pressoché unanime il disegno di legge sull'assegno unico e universale per i figli al di sotto dei 21 anni di età.

A palazzo Madama, il ministro per le Pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti, ha dichiarato con entusiastico trasporto: «Oggi è un giorno buono per l'Italia, il primo passo di una riforma storica. Si tratta di un provvedimento importante perché inizia un tempo nuovo, del futuro, della ripartenza». La Bonetti parla di «riforma storica, integrata, delle politiche familiari del nostro paese», evidenziando che «l’istituzione dell’assegno unico universale all’interno di queste politiche, del Family Act, segna evidentemente un cambio di paradigma nelle politiche per le famiglie e nel sostegno alla natalità [...] per rimettere al centro le nuove generazioni». Il punto centrale del discorso è quello dove il ministro riconosce che «il calo demografico ha raggiunto livelli drammatici per l’Italia», individuandone le «ragioni profonde», «nell’impossibilità che oggi le donne e gli uomini hanno di guardare al domani». Il ministro aggiunge poi che il parlamento è pienamente consapevole del fatto che «stiamo usando le risorse del futuro dei nostri figli».

Per entrare nel merito degli aspetti “tecnici” del provvedimento si dovranno attendere i decreti attuativi per l’entrata in vigore, che è prevista per il 1° luglio. Alcune considerazioni di principio, tuttavia, si possono fare fin d’ora. Ė positivo che il governo si sia finalmente reso conto della gravità della situazione demografica italiana e che metta in cantiere delle misure per un rilancio della natalità e per rendere meno ardua la vita alle famiglie. Gli interventi, tuttavia, possono essere efficaci soltanto se la diagnosi del male è corretta e i mezzi impiegati adeguati.

Non ci sono dubbi sull’aggravamento della situazione sociale ed economica causata dalla gestione sciagurata dell’epidemia, imperniata sul “modello cinese” dei rigidi lockdown imposti in modo indifferenziato a tutta la popolazione, con inevitabili effetti deleteri anche sul piano psicologico e quindi da tutti i punti di vista sfavorevoli alla natalità. I dati rilasciati dall’Istat sono drammatici: il numero di nati in Italia per anno segna nuovi minimi storici, e nel 2021 potrebbe scendere addirittura al di sotto delle 400 mila unità, a fronte del milione di nati annui registrati nell’immediato dopoguerra.

Attribuire il crollo demografico al CoViD-19, come fa il ministro Bonetti che individua nell’emergenza sanitaria e nella conseguente crisi sociale ed economica le «ragioni profonde» della denatalità, non fornisce però un quadro completo. L’analisi dei dati mostra infatti come l’involuzione demografica nel nostro Paese si sviluppi a partire dalla fine degli anni '70, come conseguenza della grave crisi morale provocata dalla “rivoluzione culturale” del '68, che negli anni '70 ha prodotto legislazioni e costumi sfavorevoli alla famiglia, e quindi alla natalità: dall’introduzione del divorzio alla riforma del diritto di famiglia, dalla diffusione della pillola anticoncezionale alla legalizzazione dell’aborto. Nel 1976 il «tasso di fecondità totale», che esprime il numero medio di figli per donna in età fertile, si trovava ancora in corrispondenza di 2,1 figli per donna, la cosiddetta «soglia di sostituzione», il livello necessario per garantire il ricambio generazionale in presenza di un saldo migratorio nullo. Negli anni seguenti la fecondità è crollata: a 1,68 figli in media per donna nel 1980 (due anni dopo la legge 194 sull’aborto, evidente la correlazione) e poi a 1,35 nel 1990. In soli 15 anni, quindi, il numero di bimbi nati in Italia per anno ogni 1000 donne in età fertile è diminuito di oltre 700: un vero e proprio suicidio demografico. La natalità ha toccato un minimo storico a 1,19 figli per donna nel 1995 e la timida ripresa degli anni successivi si è arrestata a un massimo a 1,46 nel 2010, in corrispondenza della grande crisi finanziaria del 2008-2009. Negli anni seguenti è poi proseguita la tendenza ribassista, fino a toccare un minimo a 1,27 nel 2019.

Ė quindi evidente come già prima del CoViD-19 la natalità si posizionasse su livelli prossimi ai minimi storici della metà degli anni '90. Non ci sono dubbi che post-CoViD assisteremo a nuovi drammatici cali della natalità, ma si tratta di un’accelerazione ribassista all’interno di una tendenza negativa già in essere da 45 anni. Se vogliamo leggere i dati in modo realistico dobbiamo quindi riconoscere che il lungo inverno demografico che affligge l’Italia (ma anche gli altri Paesi sviluppati, dal Giappone alla Germania) non è stato causato da motivazioni economiche: queste possono certamente essere delle concause, che accentuano ulteriormente un male che nasce però da cause più profonde, culturali e morali, a partire dalla crisi della famiglia. I dati ci dimostrano con evidenza che la crisi demografica non è quindi la conseguenza di una crisi economica; semmai è vero il contrario. A causa della denatalità degli ultimi decenni, la popolazione in età lavorativa ha subìto una progressiva erosione, mentre nel contempo l’allungamento delle aspettative di vita e l’invecchiamento della generazione dei cosiddetti baby-boomer, i nati dal 1946 al 1964, sta portando a costi pensionistici, sanitari e assistenziali sempre più elevati, che vengono “prelevati” da un numero di buste-paga in continua diminuzione.

La cosiddetta «piramide demografica» si sta trasformando, anno dopo anno, in un “fungo”, dal gambo sempre più piccolo e il cappello sempre più grande, con evidenti rischi di sostenibilità (cfr. immagine in allegato). La mancata “riproduzione del capitale umano” ha inchiodato la produttività, frenando la crescita economica e la generazione di benessere diffuso. Il mancato ricambio generazionale, in Italia e nel resto del mondo sviluppato, negli ultimi lustri è stato in parte attutito dai flussi migratori positivi e in parte “compensato” dai fiumi di liquidità creata ex-nihilo dalle Banche Centrali e dal continuo ricorso all’indebitamento, pubblico e privato, portando a gravi squilibri economici e finanziari. Le politiche monetarie e fiscali espansive non generano però ricchezza netta, hanno solo effetti redistributivi, col rischio di ipotecare il futuro (i debiti sono sempre tasse differite) e danneggiare proprio quelle giovani generazioni che si vorrebbe aiutare. Stante il quadro delineato, sarebbe quindi illusorio pensare di invertire tendenza dando la paghetta di Stato ai figli, e magari il reddito di cittadinanza ai genitori. Un intervento sugli effetti, senza agire sulle cause, può dare un sollievo momentaneo, ma non può essere risolutivo.

In linea con la diagnosi sopra-indicata, occorre invece riattribuire una posizione di centralità alla famiglia, a tutti i livelli. Sul piano fiscale si dovrebbe partire dall’introduzione del quoziente fiscale familiare, in modo che il prelievo tenga conto della composizione del nucleo familiare; per garantire nei fatti la libertà di scelta educativa delle famiglie occorrerebbe poi rivedere il sistema scolastico, riconoscendo davvero la funzione pubblica delle scuole paritarie con l’introduzione del “buono scuola”. Qui come altrove lo Stato dovrebbe fare un passo indietro, rinunciando alla pretesa di assorbire tutte le risorse del Paese, pianificando e dirigendo tutto dal centro, valorizzando invece la famiglia e la società civile in una prospettiva di vera sussidiarietà. Ciò è urgente, non solo per motivi di principio e morali ma anche per ragioni economiche e finanziarie, a partire dalla tenuta del sistema previdenziale e sanitario nei decenni a venire.

La soluzione reale non passa quindi dalle politiche assistenzialistiche, che generano dipendenza, soprattutto in quelle aree del Paese meno sviluppate dove, a parità di assegno in termini nominali, il potere d’acquisto reale è ben superiore di quello che si avrebbe, ad esempio, a Milano o a Roma. In conclusione, le buone intenzioni del governo possono essere viste con favore, soprattutto se saranno poi declinate in modo intelligente ed equo, ma senza illudersi che siano sufficienti di per sé sole a risollevare le sorti demografiche del nostro Paese.