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l'ideologia all'altare

Non sono i tradizionalisti, ma Roche a ignorare il Concilio

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Il porporato perseguita il rito tradizionale in base al (falso) presupposto che la teologia sarebbe cambiata con il Vaticano II. In realtà, la vera contraddizione non è tra testi conciliari e Messa antica, ma tra il prefetto del Culto Divino e la liturgia.

Editoriali 06_04_2023

Il prefetto del Dicastero per il Culto Divino, Il Cardinale Arthur Roche, non riesce proprio a dimostrare di avere almeno una qualche familiarità con il ruolo che gli è stato sciaguratamente affidato. O meglio, per darne parvenza dovrebbe stare sistematicamente zitto. Ma, come si fa? Un prefetto di Dicastero prima o poi dovrà pur dire qualcosa se qualcuno gli pone domande...

Fatto sta che sono bastati meno di trenta secondi (qui dal minuto 10:37) di risposta ad un servizio di BBC.com sulla guerra alla Messa antica, per dimostrare al mondo intero che Roche non ha la più pallida idea di dove stia di casa la liturgia. E per rendere palese che ad essere contro il Concilio Vaticano II è proprio lui, non chi frequenta il Rito antico.

«La teologia della Chiesa è cambiata. Mentre prima il sacerdote rappresentava, a distanza, tutto il popolo che veniva canalizzato attraverso questa persona che da sola celebrava la Messa», ora «non è solo il sacerdote a celebrare la liturgia, ma anche coloro che sono battezzati con lui, e questa è un’affermazione enorme da fare». Questa la sentenza dell’ex-vescovo di Leeds.

Bene. Adesso facciamo al cardinale due serie di domande, le cui risposte, per un prefetto del Culto Divino, dovrebbero essere facili facili. Iniziamo con la prima serie: l’enciclica Mediator Dei è stata scritta prima o dopo il Concilio Vaticano II? Sacrosanctum Concilium e Lumen Gentium sono documenti del Vaticano II oppure precedenti? Roche avrà sicuramente risposto correttamente: la Mediator Dei precede il Vaticano II, essendo stata scritta nel 1947 da Pio XII, mentre Sacrosanctum Concilium è la costituzione liturgica del medesimo Concilio e Lumen Gentium una costituzione dogmatica.

Dunque, stando al cambiamento teologico sostenuto da Roche, dovremmo trovare significative differenze tra i tre documenti magisteriali. In particolare, ci dovremmo aspettare che Mediator Dei affermi l’esclusività del sacerdote nella celebrazione dei Divini Misteri, mentre Sacrosanctum Concilium e Lumen Gentium insegnino che fedeli e sacerdoti offrono insieme, indistintamente, la vittima divina. E invece? Invece, purtroppo per Roche, Mediator Dei si esprime così: «In questa maniera l’azione privata e lo sforzo ascetico […] dispongono [i fedeli] a partecipare con migliori disposizioni all’augusto sacrificio dell’altare, a ricevere con frutto maggiore i sacramenti, a celebrare i sacri riti». I fedeli partecipavano e celebravano i sacri riti anche prima del Concilio.

In modo ancora più esplicito, Mediator Dei insegna che «anche i fedeli offrono la vittima divina, sotto un diverso aspetto», rispetto ai ministri ordinati. E, giusto per complicare ancora di più la posizione di Roche, Pio XII pensa di chiamare in soccorso nientemeno che Innocenzo III per insegnare che i fedeli non vengono sostituiti dal sacerdote che fa tutto: «Non soltanto offrono i sacerdoti, ma anche tutti i fedeli: poiché ciò che in particolare si compie per ministero dei sacerdoti, si compie universalmente per voto dei fedeli».

Poco oltre, Pio XII collega questa azione di offerta propria dei fedeli al loro sacerdozio battesimale, cavallo di battaglia dei “conciliaristi”: «Né fa meraviglia che i fedeli siano elevati a una simile dignità. Col lavacro del Battesimo, difatti, i cristiani diventano, a titolo comune, membra del Mistico Corpo di Cristo sacerdote, e, per mezzo del “carattere” che si imprime nella loro anima, sono deputati al culto divino partecipando, così, convenientemente al loro stato, al sacerdozio di Cristo».

Dall’altra parte troviamo che è proprio Sacrosanctum Concilium ad insegnare che questa azione comune di tutta la Chiesa, capo e membra prevede una distinzione gerarchica nell’azione liturgica: «tali azioni appartengono all'intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano; ma i singoli membri vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e della partecipazione effettiva» (n. 26). La Costituzione dogmatica Lumen Gentium mostra che questa distinzione non è meramente pratica o d’onore; infatti, «il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico» differiscono «essenzialmente e non solo di grado»: il sacerdozio ministeriale, in virtù del carattere sacro che viene impresso con l’ordinazione sacramentale, viene in special modo associato al sacerdozio di Cristo-capo e pertanto «forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo»; invece «i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all'offerta dell'Eucaristia ed esercitano il loro sacerdozio» nel modo loro proprio, ossia «col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e la carità operosa» (n. 11).

Si potrebbe andare avanti con i testi, ma è più che sufficiente per comprendere come il “cambiamento teologico” attribuito al Vaticano II sia in realtà una corrente teologica eterodossa che si rifà allo “spirito” del Concilio e non ai suoi testi. Roche dev’essere evidentemente posseduto da questo “spirito”.

Il secondo gruppo di domande che rivolgiamo a Roche riguarda alcune espressioni presenti nel messale. La formula «Pregate, fratelli, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre onnipotente» è presente nel Messale antico o in quello nuovo? L’espressione «Ricordati di tutti coloro che sono qui riuniti, dei quali conosci la fede e la devozione: per loro ti offriamo e anch'essi ti offrono questo sacrificio di lode» a quale Messale appartiene?

Ad entrambe le domande il Cardinale non avrà difficoltà a rispondere che sia il Messale che lui perseguita, sia quello approvato da Paolo VI e poi da Giovanni Paolo II, contengono queste parole. La prima fa parte dei riti d’Offertorio e sottolinea che il sacrificio è sia del sacerdote che dei fedeli, ma non in modo indistinto – come evidentemente ritiene chi, di suo arbitrio, pensa di semplificare il tutto con un bel “nostro” -; all’esortazione i fedeli rispondono (anche nel nuovo rito!): «Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio...». In pratica “canalizzano”, per dirla con Roche, la loro offerta al sacerdote perché la offra a Dio.

La seconda è presa dal Canone Romano-Preghiera Eucaristica I. Non si afferma affatto che il sacerdote sia l’unico a offrire, ma che i fedeli stessi offrono. Poco dopo questa antichissima preghiera eucaristica domanda al Signore di accettare «questa offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia», duplice offerta ribadita dopo la consacrazione: «noi tuoi ministri e il tuo popolo santo».

E così, tanto per concludere, Roche dovrebbe sapere che il Codice di Diritto Canonico vigente – anch'esso post-conciliare – prevede che il sacerdote possa celebrare la Santa Messa anche in assenza di popolo. Guarda un po’. Il can. 904 raccomanda infatti ai sacerdoti la celebrazione quotidiana, «la quale, anche quando non si possa avere la presenza dei fedeli, è sempre un atto di Cristo e della Chiesa». Il can. 906 spiega tuttavia che la celebrazione senza nessun fedele può avvenire solo «per giusta e ragionevole causa». Ma può avvenire: il sacerdote può celebrare da solo, senza che questo comporti uno stravolgimento della sana teologia liturgica. Stupirà il prefetto che il nuovo canone, quello dopo il Concilio, sia persino più permissivo del corrispettivo can. 813 del Codice del 1917, quello prima del Concilio, che richiedeva invece un «grave motivo» per la celebrazione “in solitaria”.

Se i fedeli che frequentano la Messa antica devono essere perseguitati perché non accolgono il Concilio, allora il prefetto del Culto divino dev’essere cacciato. Per la stessa ragione.