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la visita del cardinale

Pizzaballa porta il Natale della speranza a Gaza

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Si sperava in un Natale di pace e di rinascita, ma Gaza non è sola. Lo dimostra la recente visita del patriarca Pierbattista Pizzaballa alla parrocchia cattolica che ha assunto il valore di un gesto simbolico, capace di parlare anche dove le parole sembrano non bastare più in una terra segnata dalla distruzione.

Esteri 24_12_2025

Si sperava in un Natale di pace e di rinascita. Lo desideravano gli abitanti di Gaza, ma anche quelli della Cisgiordania. Ne erano convinti, quando hanno accolto l’illuminazione del grande albero di Natale, nella piazza centrale di Betlemme, come un segno di speranza. Dopo due anni senza luminarie e decorazioni e con le celebrazioni liturgiche ridotte al minimo, i cristiani di Betlemme e di tutta la Palestina sono tornati a rivivere, indossando l’abito della festa. «Sebbene quest’anno ci rallegriamo che un cessate il fuoco abbia permesso a molte delle nostre comunità di celebrare pubblicamente le gioie del Natale – scrivono i capi delle Chiese di Gerusalemme – prestiamo comunque attenzione all’avvertimento del profeta Geremia contro coloro che dicono “Pace, pace, quando pace non c’è”».

E in effetti, per i palestinesi la pace vera rimane un sogno irraggiungibile. Nella Striscia, infatti, si continua a morire nonostante il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, entrato in vigore lo scorso 10 ottobre. Ma si muore anche in Cisgiordania dove i coloni imperversano seminando morte e distruzione, ma soprattutto odio. Un odio che aumenta, giorno dopo giorno, nei confronti del popolo israeliano, e che si sta diffondendo in tutto il mondo rispolverando quell’antisemitismo che la storia riteneva di aver cancellato.

Nella Striscia, Israele continua a violare gli accordi. Secondo una nota diffusa dall’ufficio stampa di Gaza, l’esercito israeliano ha violato il cessate il fuoco 875 volte dalla sua entrata in vigore, e almeno 411 palestinesi sono stati uccisi, mentre i feriti sono 1.112. Ma c’è dell’altro, il governo israeliano, guidato da Benjamin Netanyahu, prosegue nel cinico blocco degli aiuti umanitari, disperatamente necessari all'enclave devastata dalla guerra. Centinaia di migliaia di famiglie palestinesi continuano a lottare contro la mancanza di aiuti umanitari, cibo, medicine e ripari adeguati. Il recente maltempo ha peggiorato la situazione e i gruppi umanitari, che ancora operano nella Striscia, hanno lanciato un appello per consentire l'ingresso di tende, coperte e altri rifornimenti. 

Ma Gaza non è sola, lo dimostra la recente visita, in occasione del Natale, del patriarca Pierbattista Pizzaballa alla parrocchia cattolica. La presenza del cardinale (QUI il suo discorso) ha assunto il valore di un gesto profondamente simbolico, capace di parlare anche dove le parole sembrano non bastare più. In una terra segnata dalla distruzione, dal lutto e dalla paura quotidiana, la sua presenza è stata prima di tutto un segno di vicinanza che rompe l’isolamento e ricorda che nessuna sofferenza è invisibile.

Tra le macerie degli edifici e le ferite ancora aperte dal conflitto, il patriarca ha portato un messaggio di speranza che non nega il dolore, ma lo attraversa. La speranza, in questo contesto, non è un facile ottimismo, né una promessa immediata di pace, bensì la convinzione che anche i cuori più provati possono lentamente ritrovare la forza di battere per il futuro. È una speranza fragile, come fragile è la vita a Gaza, ma proprio per questo autentica e necessaria. «Non abbiate paura, dobbiamo essere uniti e forti. Voi avete dimostrato, specialmente durante la guerra, ma anche adesso, che cosa significhi rimanere forti, siete una testimonianza vivente nella fede e nella speranza per tutto il mondo», ha detto Pizzaballa, incontrando i suoi parrocchiani.

Il patriarca ha richiamato l’attenzione sulla ricostruzione che viene prima di ogni altra: quella interiore. Prima ancora delle case, delle strade e delle scuole, sono i cuori delle persone ferite a dover essere curati. Cuori segnati dall’odio e dalla tentazione della disperazione. Ricostruire i cuori significa restituire dignità, ascolto, fiducia; significa creare spazi in cui il dolore possa essere condiviso e non trasformarsi in rancore. In questo senso, la visita del patriarca latino diventa un invito rivolto a tutti: non distogliere lo sguardo, non abituarsi alla sofferenza altrui. Gaza non è solo un luogo di conflitto, ma una comunità di persone che continuano a sperare, spesso contro ogni evidenza. La presenza di un pastore che cammina accanto a loro, ricorda che la pace, quando arriverà, nascerà anche da questi piccoli semi di umanità, piantati nel terreno ferito dei cuori.

Nel frattempo, dopo quel tragico 7 ottobre del 2023, la presenza dei coloni israeliani nei Territori palestinesi occupati è diventata uno dei nodi più controversi e dolenti del conflitto israelo-palestinese. In diverse aree della Cisgiordania si sono registrati, in questi ultimi due anni, episodi di aggressioni, incendi di abitazioni e terreni agricoli, distruzione di uliveti e limitazioni all’accesso alle risorse fondamentali come l’acqua e le strade.

Il governo israeliano tace oppure dispone delle inchieste che spesso si concludono in un nulla di fatto. Ma inquietanti sono le parole pronunciante da qualche ministro della destra ultraortodossa. È il caso di Itamar Ben-Gvir che chiede una “Alligator Alcatraz” per i palestinesi. Non è, purtroppo, una provocazione. È un progetto che l’esponente governativo vuole realizzare. Si tratterebbe di una struttura carceraria, sul modello di quello della Florida, dalla quale è impossibile fuggire, circondata da zone dove vivrebbero coccodrilli e alligatori. Sarebbe anche stata individuata l’area, nelle vicinanze di Hamat Gader, località umida nel nord di Israele, nota per ospitare dal 1981 l’allevamento di coccodrilli più grande del Medio Oriente. Iniziativa che presto approderà in parlamento per la discussione insieme all’introduzione della pena di morte per i palestinesi.

Proposte che rafforzano l’odio tra i due popoli. Negli ultimi anni, infatti, l’ostilità tra israeliani e palestinesi si è moltiplicata, alimentata da cicli di violenza, lutti e sfiducia reciproca. Ogni nuovo scontro rafforza narrazioni contrapposte, in cui il dolore vissuto da una parte rende sempre più difficile riconoscere quello dell’altra. La mancanza di prospettive politiche credibili e il peso della paura quotidiana contribuiscono ad irrigidire le posizioni, trasformando il conflitto in una spirale emotiva, oltre che militare. Spezzare questa dinamica richiede ascolto, responsabilità e la capacità di riconoscere l’umanità anche nel nemico.