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FRANCIA/Battaglia per le Messe

Macron ha violato la libertà di culto (e lo dicono i giudici)

Il limite di 30 fedeli per Messa, a prescindere dalla grandezza della chiesa, è ingiustificato, sproporzionato e illegale. Il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso della Conferenza episcopale francese contro il Governo Macron, che ora deve rivedere la sua linea. Segno che la mobilitazione dei vescovi (e con loro dei laici), per difendere i diritti di Dio contro le ingiustizie, paga.

Ecclesia 01_12_2020

La decisione del Governo Macron di continuare a limitare a 30 il numero di fedeli che possono partecipare alla Santa Messa è «ingiustificata», «sproporzionata» e «illegale». Il 29 novembre, prima domenica di Avvento, il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso della Conferenza episcopale francese (Cef) contro l’esecutivo, che dopo giorni di promesse aveva confermato il limite arbitrario delle 30 persone, senza tenere conto delle diverse dimensioni delle chiese. I giudici hanno dato tre giorni di tempo (che scadono domani) al governo guidato dal premier Jean Castex per rivedere i criteri di questa illegittima restrizione al culto.

Si tratta di un passo avanti di grande significato, stante anche il fatto che lo scorso 6 novembre proprio il Consiglio di Stato aveva sostanzialmente approvato la linea governativa, pur chiedendo all’esecutivo di proseguire il dialogo con i vescovi e avanzare una proposta per il 16 del mese così da permettere un più facile accesso alle chiese. Da allora Macron e compagni hanno però continuato a fare melina, fino all’annuncio di giovedì scorso di Castex che aveva detto in conferenza stampa che la questione Messe sarebbe stata ritrattata solo a partire dal 15 dicembre. L’ennesima presa in giro, a cui la Cef - presieduta dall’arcivescovo di Reims, Éric de Moulins-Beaufort - ha risposto appunto con un nuovo ricorso giudiziario, uno dei quattro (compreso quello dell'associazione laica Agrif) presentati contro l'articolo 47 del decreto del 27 novembre.

Quel che colpisce (positivamente), stavolta, non è solo l’accoglimento del ricorso ma anche le parole usate dal Consiglio di Stato. Secondo i giudici, «il divieto assoluto e generale di qualsiasi cerimonia religiosa con più di trenta persone, quando nessun’altra attività autorizzata è soggetta a tale limitazione fissata indipendentemente dalla superficie dei locali in questione, non risulta giustificato dai rischi propri di tali cerimonie». Ricordiamo che i vescovi avevano proposto di adottare uno spazio di sicurezza di quattro metri quadrati a fedele o di riempire la chiesa fino a non più di un terzo della capienza. Proposte ignorate dal governo. L’organo di giustizia amministrativa evidenzia il «carattere sproporzionato rispetto all’obiettivo di salvaguardia della salute pubblica» e ciò «costituisce quindi, tenuto conto del carattere essenziale della componente in questione della libertà di culto, una violazione seria e manifestamente illegale rispetto a quest’ultima».

Il Consiglio di Stato riconosce poi un’evidenza che smonta l’odierno relativismo laicista. Questa: «Se alcuni locali aperti al pubblico diversi dai luoghi di culto rimangono chiusi [il riferimento è innanzitutto a teatri e cinema, come nota anche Le Figaro, ndr], le attività che vi vengono svolte non sono della stessa natura e le libertà fondamentali che sono in gioco non sono le stesse». In buona sostanza i giudici riconoscono che la professione della fede - che per i cattolici ha la sua fonte e il suo culmine nella celebrazione della Santissima Eucaristia - è una libertà che per sua natura richiede una maggior tutela di altre. È importante, anche dal punto di vista giurisprudenziale, che questo minimo buonsenso sia stato recuperato, trattandosi di qualcosa che la cultura dominante ormai disprezza e disconosce, vedi per esempio i Veltroni di casa nostra che sulla tv pubblica parlano (con tanto di applausi) come se il Sacrificio di Gesù che si rinnova fosse una specie di servizio ludico o ricreativo.

Dunque, la mobilitazione dei laici e dei vescovi contro l’ingiustizia verso la fede cattolica ha sortito un primo, significativo, effetto. Il 25 novembre l’arcivescovo di Parigi, Michel Aupetit, aveva definito «ridicolo» e contro ogni logica il limite delle 30 persone applicato tanto alla chiesetta di campagna quanto all’enorme chiesa di San Sulpizio, la più grande della capitale dopo Notre-Dame. Nella stessa occasione, parlando con Radio Notre Dame, aveva lamentato come il governo stesse trattando i vescovi «come bambini», nonostante il pressoché generalizzato rispetto delle misure sanitarie. E sempre Aupetit, di fronte a quell’ulteriore imposizione da parte della maggioranza politica, aveva detto di dover valutare se obbedire o no, aggiungendo che già oggi «ogni volta che entriamo nelle nostre chiese rischiamo di essere assassinati dal terrorismo islamico […]. Forse il signor Darmanin [il ministro dell’Interno, ndr] invierà la polizia con i manganelli durante la Messa, sarebbe uno spettacolo incredibile. Vedremo».

Le parole di Aupetit, che per il suo ruolo di arcivescovo di Parigi ha un’autorevolezza e visibilità di prim’ordine, non sono isolate perché altri vescovi hanno reagito con spirito di fortezza alla prevaricazione dello Stato - come, senza pretesa di esaustività, Marc Aillet (vescovo di Bayonne), Dominique Rey (Fréjus-Tolone), Emmanuel Delmas (Angers), Bernard Ginoux (Montauban), Dominique Lebrun (Rouen), Norbert Turini (Perpignan), Bruno Valentin (ausiliare di Versailles). Alcuni di questi pastori hanno anche garantito protezione ai fedeli nel caso di problemi con le autorità civili per il superamento del limite delle 30 persone per Messa.

Tra i più determinati monsignor Ginoux, che in una lettera alla Diocesi ha ricordato la Legge di separazione tra Chiesa e Stato del 1905, e ha aggiunto che «le chiese rimangono aperte» e i fedeli sono liberi di andarci «senza che alcuna autorità abbia il potere di stabilire un divieto». Perciò, scriveva il vescovo di Montauban un paio di giorni prima che il Consiglio di Stato si pronunciasse, «chiedo che le Messe riprendano nella diocesi alle consuete ore domenicali, applicando il protocollo sanitario in vigore (Circolare diocesana n° 3), che noi abbiamo sempre rispettato». Se i sacerdoti o i comuni fedeli «dovessero ricevere una multa alla fine della Messa, dovrebbero rifiutarsi di pagarla sul posto. Chiedo che questi fatti mi siano comunicati e incaricherò l’avvocato della diocesi di seguirli».

Dopo queste incoraggianti prese di posizione e il ricorso della Cef è arrivata appunto la decisione della giustizia amministrativa. Il governo (ri)formulerà quindi la sua linea. Ma ora sa che ci sono dei vescovi - sostenuti da migliaia di fedeli mobilitatisi anche prima degli stessi pastori - che non sono tanto facilmente disposti a mettere da parte i diritti di Dio e, con essi, il loro bisogno di Salvezza.