Le virtù eroiche di Lejeune, il genetista che difese la Vita
Promulgato dalla Congregazione delle Cause dei Santi il decreto che riconosce le virtù eroiche di Jérôme Lejeune (†1994), proclamato venerabile. Grande genetista francese, scoprì la causa della Sindrome di Down. Seppe coniugare scienza e fede, non temendo di prendere posizione - a costo della gloria terrena - contro l'aborto e l’eugenetica che andava pervadendo la medicina. Nella convinzione che «dobbiamo amare il bambino e curare la malattia».
Con uno dei decreti promulgati ieri dalla Congregazione delle Cause dei Santi, la Chiesa ha riconosciuto le virtù eroiche del Servo di Dio Jérôme Lejeune (1926-1994), che è stato quindi proclamato venerabile. Se un giorno avverrà il riconoscimento di un miracolo per sua intercessione, la strada per la beatificazione sarà spianata.
La sua fama internazionale, legata al suo grande talento nella genetica e in particolare alla scoperta della causa della Sindrome di Down, sarebbe probabilmente stata ancora più grande se non avesse affrontato l’ostracismo di una parte consistente della comunità scientifica e del sistema culturale. Un ostracismo causato non certo dalle sue indiscusse qualità da scienziato (esperto anche degli effetti delle radiazioni nucleari) ma dalla sua fede vissuta, che gli faceva prendere posizioni morali controcorrente, a partire dalla ferma contrarietà all’aborto. «La verità scomoda è che lui è stato un segno di contraddizione. Davanti alla menzogna che uccide, lui ha avuto il merito di non farsi mettere a tacere», scrisse l’amata Birthe (con cui ebbe cinque figli) in una lettera aperta del 2014, quando dovette difendere - ricostruendo lucidamente i fatti - la memoria del defunto marito rispetto ai tentativi, portati avanti dopo la sua morte, di sminuirne il ruolo nell’individuazione del 47° cromosoma e di dipingerlo come «un usurpatore».
Lejeune era nato il 13 giugno 1926 da una famiglia profondamente cattolica, in un comune alle porte di Parigi (Montrouge). Dalla lettura di Honoré de Balzac gli sorse il desiderio di divenire un medico di campagna, ma le circostanze della vita lo indirizzarono su una strada diversa. Il pediatra e genetista Raymond Turpin, sotto la cui guida aveva discusso la tesi di dottorato, lo volle come assistente. Fu così che Lejeune iniziò nel giugno 1952 a lavorare al Centro nazionale della ricerca scientifica (Cnrs) francese. Campo di lavoro: il mongolismo, come allora era chiamata la Sindrome di Down.
Nel ’58, al culmine di questo impegno, affiancato dallo stesso Turpin e da Marthe Gautier, rilevò per primo l’esistenza di un cromosoma in più nella coppia 21; e sfatando diversi miti spiegò, ancora per la prima volta nella storia della genetica, il legame tra l’anomalia cromosomica delle persone con Trisomia 21 (come fu poi anche chiamata) e il relativo ritardo mentale. Nel gennaio dell’anno successivo i tre ricercatori pubblicarono insieme i risultati del loro lavoro, firmato per primo - su indicazione di Turpin, a capo della squadra di ricerca - proprio da Lejeune e per seconda dalla Gautier, il cui prezioso contributo fu sempre riconosciuto dall’oggi venerabile (a dispetto della querelle post mortem sopra accennata).
L’amore per i bambini con la Sindrome di Down era la motivazione alla base del lavoro di Lejeune, che si era dato da fare per trovare la causa dell’anomalia genetica in quanto premessa indispensabile per individuare una cura capace di alleviarne il ritardo cognitivo. Fu quindi grande il suo dolore nel constatare come i fautori dell’eugenetica si servirono poi delle sue scoperte per sviluppare dei test prenatali funzionali non alla cura (cura che è l’obiettivo di alcuni medici pro vita che oggi, sulla base degli studi di Lejeune, ne stanno continuando l’opera) bensì all’eliminazione dei bambini. «Razzismo cromosomico», lo chiamò lui, che denunciava «la medicina alla Molière, che invece di sopprimere la malattia sopprime il malato». Solo nella sua clinica parigina seguì cinquemila pazienti in età pediatrica, ricordando il nome di ognuno e dicendo ai loro genitori: «Dobbiamo amare il bambino e curare la malattia». E come raccontò nel 2013 la figlia Clara alla Nuova Bussola, se il padre Jérôme riceveva una telefonata da una coppia che aspettava un bambino con la Sindrome di Down, lui «smetteva di fare quello che stava facendo e andava ad incontrarli, in qualsiasi giorno, anche a Natale…».
Il grande scienziato francese non perdeva occasione per difendere la vita nascente. Uno dei suoi più famosi discorsi in questo senso lo tenne nel 1969, a San Francisco, alla cerimonia di consegna del Premio William Allan (tra i maggiori riconoscimenti per un genetista), quando ricordò ai presenti che l’embrione è già un essere umano ed esortò i colleghi a rigettare l’eugenetica. In un’altra occasione, negli anni Settanta, di nuovo negli Stati Uniti, mentre teneva una conferenza presso il National Institute of Health, pensando alla diffusione della cultura abortista, disse - con un gioco di parole in inglese - che «l’Istituto della Salute» (Institute of Health) rischiava di diventare «l’Istituto della Morte» (Institute of Death). Quel giorno stesso scrisse alla moglie: «Oggi ho perso il Premio Nobel per la medicina».
Quando in Francia infiammò il dibattito sull’aborto, che portò alla Legge Veil del 1975, lui era chiaramente uno dei personaggi più noti del fronte pro vita e l’ostilità nei suoi confronti arrivò ad eccessi quali scritte intimidatorie («A morte Lejeune e i suoi mostriciattoli») e lanci di pomodori mentre parlava. La sua testimonianza a difesa della morale naturale riguardò tutte le questioni calde del tempo. Denunciava infatti «la contraccezione, che è fare l’amore senza fare il figlio, la fecondazione extracorporea, che è fare il figlio senza fare l’amore, la pornografia, che è distruggere l’amore, l’aborto, che è distruggere il figlio, tutte cose contrarie alla dignità dell’amore umano».
Santi come Paolo VI e Giovanni Paolo II lo stimavano, com’era naturale, per la sua capacità di coniugare scienza e fede. Papa Montini lo nominò membro della Pontificia Accademia delle Scienze. E Wojtyla scelse lui per gettare le fondamenta della Pontificia Accademia per la Vita, di cui fu il primo presidente, sebbene solo per poche settimane (febbraio-aprile 1994). In quel periodo aveva già un cancro ai polmoni, malattia che affrontò da cristiano che guarda a Cristo crocifisso e risorto. Aveva ricevuto la diagnosi fatale nell’ottobre 1993. Ma lui rassicurò la sua famiglia così: «Non dovete preoccuparvi fino a Pasqua: vivrò almeno fino ad allora. E a Pasqua non può avvenire nulla che non sia meraviglioso!». Il Signore lo chiamò a Sé pochi mesi dopo, la mattina del 3 aprile 1994. Era la Domenica di Pasqua.