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ORA DI DOTTRINA / 74 - IL SUPPLEMENTO

La medicalizzazione del dolore vs il senso che viene da Cristo

La medicalizzazione della vita ha inglobato anche il modo di affrontare il dolore e la morte. O meglio, di non affrontarlo. L’anestesia è diventata anche culturale. Invece, la sofferenza è sempre stata una domanda di senso, che, nella sua prospettiva più elevata, trova risposta nella partecipazione alla Redenzione di Gesù.

Catechismo 25_06_2023

La medicalizzazione della società e della vita (vedi qui) è un fenomeno di fronte al quale ci siamo arresi, senza nemmeno aver tentato la contesa. Il totalitarismo medicale, nella sua inarrestabile espansione, ha così messo le mani su due dimensioni cruciali della vita umana, ossia la sofferenza e la morte. Entrambe vengono ormai interamente consegnate agli esperti, i quali, dentro la loro visione tecno-scientifica univoca, le riducono a oggetto, a problema tecnico.

La sofferenza è sempre stata anzitutto una domanda di senso, una palestra unica e insostituibile per forgiare virtù elevate, come la pazienza, il coraggio, il dominio di sé, la mansuetudine, e ancor più l’umiltà, allorché tocchiamo con mano la nostra fragilità e il nostro bisogno degli altri. La sofferenza, accolta almeno con rassegnazione, ci porta a quella purificazione così necessaria dai nostri deliri di onnipotenza e all’affidamento a Dio. Ancora, in una prospettiva più elevata, la sofferenza diviene partecipazione all’opera della Redenzione di Gesù Cristo, come spiegava san Giovanni Paolo II nella Salvifici Doloris, lui che nel crogiolo della sofferenza ha vissuto a lungo.

Se è così per la sofferenza, quanto più lo è per la morte. La certezza di lasciare questo mondo, quando meno ce lo aspettiamo e spesso prima di quanto immaginiamo, è sempre stata una verità capace di ridimensionare i nostri sogni prometeici, un pungolo per cercare di vivere bene il tempo che ci viene dato e soprattutto un grande mistero che mette in moto l’uomo nella ricerca del suo senso. Sia la sofferenza che la morte coinvolgono anche tutti coloro che la incontrano in chi è vicino, occasione per far crescere la compassione, la preghiera d’intercessione, lo spirito di concreto servizio e aiuto, erodendo un po’ l’egoismo di questo mondo.

Tutta questa ricchezza è stata erosa dalla medicalizzazione della vita, che ha letteralmente estinto quella prospettiva che ha segnato, in modi molto diversi tra loro, le antiche culture: «Le culture tradizionali affrontano il dolore, e l’infermità e la morte, interpretandole come sfide che esigono una risposta dall’individuo stesso che si trova in difficoltà; la civiltà medica le trasforma invece in richieste avanzate dagli individui all’economia, cioè in problemi che si possono amministrare o estrarre dal quadro esistenziale. Le culture sono sistemi di significati, la civiltà cosmopolita è un sistema di tecniche. La cultura rende tollerabile il dolore integrandolo in una situazione carica di senso; la civiltà cosmopolita distacca il dolore da ogni contesto soggettivo o intersoggettivo per annientarlo» (Ivan Illich, Nemesi medica, p. 144).

La medicalizzazione della vita obiettiva il dolore, lo rende dominio di medici superspecializzati, che affrontano il dolore nello stesso modo in cui lo sperimentatore affronta le cavie animali: l’antidolorifico che funziona per loro, va bene anche per quegli animali bipedi che sono gli uomini. Il dolore non è altro che questione di trasmissione nervosa di uno stimolo, che dunque può e deve essere soppresso, fino ad arrivare eventualmente a sopprimere la persona, purché non senta dolore.

Dobbiamo constatare che oggi il dolore è esorcizzato, non affrontato. Si pretende che esso debba essere sradicato dalla realtà della vita e per raggiungere questa illusione si è disposti a tutto: «Il dolore si traduce così in accresciuta domanda di farmaci, ospedali, servizi medici e altre forme di cura professionalizzata e impersonale, nonché in sostegno politico a un’ulteriore crescita dell’istituzione medica, senza riguardo per il suo costo umano, sociale o economico» (ibidem, p. 145).

L’anestesia è diventata anche culturale. Non si spiega diversamente la triste realtà che ormai le persone non facciano altro che augurare che il loro caro non senta dolore o felicitarsi del fatto che sia trapassato senza soffrire. L’approccio medico scientifico ha accantonato la domanda metafisica, i pazienti hanno imparato a non porsela più, in quanto qualsiasi risposta sarebbe comunque “non scientifica” e l’unico approccio a questo problema cocciuto dell’esistenza umana non può essere altro che il ricorso alla scienza per sopprimere il dolore. E anche il malato.

Tutte le culture hanno conosciuto rimedi per attenuare il dolore, fisico o psicologico, ma lo hanno fatto inglobandoli dentro una visione umana e spirituale della sofferenza. Oggi invece «la persona che soffre trova intorno a sé un contesto sociale sempre meno capace di dare senso all’esperienza che spesso la schiaccia» (ib., p. 147). Il dolore diventa così male assoluto: come gli spiriti malvagi dovevano essere allontanati dalla città degli uomini e relegati in zone deserte, sottratte alla vista, così oggi la sofferenza dev’essere bandita dalla società del benessere: rinchiusa nelle corsie degli ospedali o soppressa da antidolorifici e psicofarmaci a volontà.

La medicalizzazione della vita ha inglobato anche il modo di affrontare la morte. O meglio, di non affrontarlo. È ormai prassi che i morenti vengano spediti a morire praticamente soli nelle corsie d’ospedale e “rivisti” dentro un’urna cineraria, per lo più senza alcun rito funebre. La morte non è più vissuta né dal morente, né da parenti e amici, e anche in questo caso, il meglio che si possa e ci si possa augurare è di morire improvvisamente nel sonno. D’altronde la morte non è considerata che come il “silenzio elettrico” dell’elettroencefalogramma, rendendo pura poesia il modo di intenderla quasi universalmente come l’esalazione dello spirito nell’ultimo respiro, o come l’estremo palpito del cuore. E di fatti, oggi la tecnica ha reso possibile che i “morti” continuino ad avere un cuore che batte e l’aria che entra ed esce dai loro polmoni.

«La medicalizzazione della società ha posto fine all’epoca della morte naturale. L’uomo occidentale ha perso il diritto di presiedere all’atto di morire. La salute, cioè il potere di reagire autonomamente, è stata espropriata fino all’ultimo respiro. La morte tecnica ha prevalso sul morire» (ib., p. 205). Espropriati della vita, espropriate del dolore, espropriate della morte. È tempo di reagire.