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ORA DI DOTTRINA / 73 - IL SUPPLEMENTO

La medicalizzazione della società e i suoi danni

Con la sua promozione al rango di scienza, la medicina si è avviata verso il suo declino. Oggi siamo di fronte alla iatrogenesi sociale denunciata da Illich nel 1976: la medicina ha preso il monopolio della società e gli uomini, anche se sani, sono persuasi a considerarsi malati, almeno in potenza.

Catechismo 18_06_2023

Forse nessuna disciplina ha risentito di così vaste e gravi conseguenze di quel processo di riduzionismo scientifico di cui ci stiamo occupando, quanto la medicina. E forse nessuna disciplina ha riversato in modo così drammatico le conseguenze di questo riduzionismo sulla società.

Da quando l’arte medica è stata promossa al rango di scienza è iniziato il suo inesorabile declino e, a partire dall’abbraccio fatale tra potere e scienza, medici e pazienti sono stati travolti da quel tipico processo di spersonalizzazione e deresponsabilizzazione che Václav Havel e Václav Bělohradský avevano descritto con grande acume (vedi qui). Tra il medico e il burocrate non c’è ormai alcuna differenza che non sia quella del titolo di studi; come non v’è una significativa demarcazione tra la cura di un’appendicite e la sostituzione di una gomma forata dell’autobus di linea.

L’organizzazione scientifica della società ha quindi conosciuto la sua traduzione medica, ossia una medicalizzazione della vita personale e sociale in ogni suo aspetto. Il discorso non è banale: non si tratta del fatto che siano aumentate le malattie o il numero dei malati, ma che ogni uomo è considerato ed è stato persuaso a considerarsi come un malato, almeno in potenza; che la medicina si occupi ormai in minima parte della cura, per percorrere invece gli spazi infiniti della “prevenzione”, del miglioramento della vita dell’uomo, dell’offerta di mezzi e competenze per la realizzazione di un (volutamente) non meglio definito benessere.

Ivan Illich aveva denunciato decenni fa, nel 1976, la iatrogenesi sociale, una medicalizzazione appunto iatrogena della vita, che si verifica quando la medicina prende il monopolio della società e quando genera malati senza numero. Due volti di quell’unico fenomeno che supporta il grande paradosso: il sistema medico diventa una delle maggiori cause di nocività.

Il monopolio medico è divenuto così totalizzante che nemmeno ce ne accorgiamo più. Oggi è divenuto normale chiamare il pediatra perché il bimbo ha la febbre, utilizzare il termometro per assicurarsi che la temperatura dell’acqua del bagnetto del pupo sia quella indicata dal manuale della mamma scientificamente aggiornata, sottoporsi ad un’infinità di esami perché si è sani o non abbastanza malati, ospedalizzare la nascita, la malattia, la morte. È il medico ad avere l’autorità «di etichettare come malattia legittima ciò che lamenta un individuo, di dichiararne malato un altro anche se non si lamenta, e di rifiutare a un terzo il riconoscimento sociale della sua sofferenza, della sua invalidità e persino della sua morte» (Nemesi medica. L’espropriazione della salute, p. 50). È il medico a decidere che un uomo con il cuore che batte possa essere considerato morto, ovviamente purché abbia acconsentito all’espropriazione dei suoi organi; oppure che un bimbo nel grembo della madre avrà una vita indegna perché un ecografista ha rilevato una piccola malformazione.

Come un impero si indebolisce fino ad estinguersi, se non vi sono sufficienti sudditi, così l’imperialismo medico necessita di sempre nuovi pazienti. L’audacia della medicina contemporanea al riguardo non ha pari, al punto da scolorire la geniale strategia del famoso dottor Knock di Jules Romains (1885-1972): «I sani sono dei malati che non sanno di esserlo». Perché l’attuale sistema “medico” ha a sua disposizione un’arma letale in più, che il dottor Knock conosceva in misura irrisoria: la diagnostica. «La supervisione medica» spiegava Illich, «fa di tutta la vita una specie di episodi a rischio, ciascuno dei quali richiede una tutela speciale […]; la vita diventa un pellegrinaggio tra test e cliniche verso la corsia dove essa ebbe inizio», un lasso di tempo che «comincia a esistere con l’esame prenatale, quando il dottore decide se e come il feto dovrà essere partorito e terminerà con un timbro su un grafico che prescriverà di sospendere la rianimazione» (pp. 69-70).

Questo ciclo ininterrotto di esami diagnostici “preventivi” non solo assicura una clientela permanente, ma permette di aumentare il numero dei malati dichiarati tali. Perché - si sa - chi cerca trova, e ogni dettaglio è sufficiente per essere catalogati come ufficialmente malati, almeno nelle sindromi del “pre”, dalla premestruale alla prediabetica. Quando poi proprio non si trova nulla, nemmeno una piastrina in eccesso, rimane il fatto che qualcosa di grave potrebbe spuntare all’orizzonte.

E così la prevenzione gioca la sua carta più formidabile, che è quella di convincere la gente a farsi “curare” per qualcosa che non verrà mai, ma che, se venisse, potrebbe inghiottirti in quello 0,01% che ha avuto conseguenze drammatiche. O perfino per qualcosa che è stato un tempo, che ora non c’è più, ma che potrebbe ritornare. Meglio stare dalla parte dei bottoni, come avevo sentito dire dalla bocca di un sacerdote che giustificava l’utilizzo della mascherina in chiesa: è un dovere morale ridurre al minimo il rischio. Il famoso “rischio 0”, rincorso, per finalità diverse, da utopici e politici, i quali, quando si fondono, risultano peggiori delle dieci piaghe d’Egitto. E anche dalla gente comune, illusa che esso possa essere raggiunto.

Ma c’è di più. Spiega Illich: «La medicalizzazione della prevenzione diventa così un altro grande sintomo di iatrogenesi sociale. Essa tende a trasformare la mia responsabilità personale per il mio futuro in gestione del mio essere da parte di qualche agenzia» (pp. 76-77). Pensiamo al grande mercato degli inibitori di pompa protonica (IPP), più comunemente conosciuti come gastroprotettori. È senza dubbio più facile prendere una pillola spacciata come cura, che modificare il modo di mangiare e più in generale di vivere. Ma la verità è che la cura è la seconda, non la prima. Ma la seconda comporta una presa di responsabilità e un esercizio di virtù, mentre la prima è il risultato di automatismi: automatismo del medico che immette dati su un computer e spedisce la ricetta direttamente in farmacia, e automatismo del “paziente”, che non deve far altro che ricordarsi di buttar giù la pillola che il sistema, a cui ha consegnato la sua salute, ha stabilito.

Un sistema che rafforza nelle persone l’idea di essere delle auto, che non hanno altra “speranza di vita” se non quella di sottoporsi a continui controlli e sottomettersi al personale specializzato. Lascio alla penna di Ivan Illich la descrizione di cosa genera questo sistema, che tutti abbiamo più o meno accolto: «Quando tutta una società si organizza in funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume allora i caratteri di una epidemia. Questo strumento tronfio della cultura terapeutica tramuta l’indipendenza della normale persona sana in una forma intollerabile di devianza. Alla lunga, l’attività principale di una simile società dai sistemi introvertiti porta alla produzione fantomatica di speranza di vita come merce. Identificando l’uomo statistico con gli uomini biologicamente unici, si crea una domanda insaziabile di risorse finite. L’individuo è subordinato alle superiori “esigenze” del tutto, le misure preventive diventano obbligatorie e il diritto del paziente a negare il consenso alla propria cura si vanifica allorché il medico sostiene ch’egli deve sottoporsi alla diagnosi, non potendo la società permettersi il peso d’interventi curativi che sarebbero ancora più costosi» (pp. 81-82).

Obbligo di diagnosi, obbligo di prevenzione, obbligo di “x”. Era il 1976: io che scrivo non ero ancora nata. Ma giudichi il lettore se Illich non ha colto quello che è stato, quello che è e quello che sarà.