L’oggettività scientifica, un’utopia che uccide il soggetto
Sia la scienza moderna che il potere moderno si reggono sulla spersonalizzazione, offerta come garanzia della loro indiscutibile verità. Ma questa oggettività spersonalizzata richiede esecutori altrettanto spersonalizzati. E ciò favorisce la più radicale disumanità, come abbiamo visto in questi anni.
«Un’epoca che nega l’importanza dell’esperienza personale […] e che al posto dell’assoluto personalmente sperimentato come misura del mondo, pone un assoluto nuovo creato dagli uomini, non più misterioso, liberato dai “capricci” della soggettività e quindi impersonale e inumano, vale a dire l’assoluto della cosiddetta oggettività, della conoscenza razionale oggettiva, del pensiero scientifico del mondo». Così Václav Havel descriveva il proprio tempo nel discorso per la recezione della laurea honoris causa conferitagli il 14 maggio 1984 dall’Università di Toulouse-Le Mirail. Discorso che egli non pronunciò mai, perché le autorità cecoslovacche non gli permisero di avere un passaporto.
Havel desiderava forse un’epoca di soggettivismo relativista? Non è questo il senso di quel discorso; al contrario, il futuro presidente della Repubblica Ceca riconosceva e indicava il nuovo pericolo emergente nel più grave e insidioso arbitrio di tutti i tempi, ossia quello che avrebbe liberato il mondo dalla soggettività in nome dell’oggettività scientifica. Questa “soggettività” non è relativismo, ma la realtà della persona umana, che appunto è soggetto. A venire ucciso dall’oggettività scientifica, eretta ad unica modalità vera ed universale di accesso al reale, è anche il mondo del soggetto, che Havel chiama «mondo naturale», ossia il mondo dei significati e delle relazioni, il mondo dell’elezione del bene e della fruizione del bello, il mondo della “razionalità allargata” e del plain man, per dirla con Thomas Reid.
Questa dimensione della realtà viene liquidata come il mondo della fantasia, dei pregiudizi, della finzione, e sostituita dal mondo della scienza, «la sola padrona dell’ordine dell’essere e l’unica legittima amministratrice, per essere l’unica detentrice della verità intera, dal momento che è la sola in grado di elevarsi al di sopra di tutte le verità soggettive dei singoli e di sostituirle con una verità migliore». Ora - e questo è un passaggio cruciale - questa presunta elevazione al di sopra delle illusioni soggettive ha condotto ad un’altra illusione: l’illusione dell’oggettività impersonale e irresponsabile; irresponsabile perché impersonale.
Il mondo “asettico” della scienza esige a sua volta fattorini altrettanto “asettici”: l’uomo è sottratto alla propria responsabilità, perché nient’altro che ingranaggio del potere impersonale. «La finzione di una oggettività sganciata dall’umanità concreta, l’ipotesi di una comprensione razionale dell’universo, lo schema astratto di una presunta “necessità storica”, per culminare nella visione di un “benessere generale” che può essere determinato tramite calcoli puramente scientifici e raggiunto con mezzi puramente meccanici, un benessere che è sufficiente inventare negli istituti di ricerca e trasformare poi in realtà nelle officine dell’industria e della burocrazia»: è così che Havel descriveva il nostro mondo, contaminato da quell’utopia scientifica che ai suoi occhi non rendeva molto diversi tra loro la collettivizzazione dell’Est europeo e il capitalismo occidentale.
Un’utopia «che richiederà il sacrificio di milioni di persone in campi di concentramento scientificamente diretti»; campi delimitati da mura o a cielo aperto, i cui aguzzini e carcerieri risultano sempre assolti, non per mancanza di prove - quelle abbondano fin troppo! -, ma per dichiarazione a priori dell’inesistenza di responsabilità. Nel sistema scientificamente organizzato, l’unico imputato, inevitabilmente colpevole, è chi compie scelte responsabili in virtù del mondo della vita extrascientifico; colui cioè che ancora valuta secondo criteri di moralità e coscienza. Al contrario, chi si rende mero esecutore del sistema scientifico impersonale, diviene tutt’uno con la Scienza e la Tecnica, e partecipa della loro “innocenza ontologica”.
Se non si comprende questa dinamica, inevitabilmente non ci si raccapezza di come sia possibile che medici che hanno somministrato un preparato che è risultato gravemente nocivo o letale per alcuni siano assolti senza nemmeno processo, mentre medici che hanno curato persone siano sottoposti a processo e condannati. Non è questione di corruzione: il problema è drammaticamente più serio e pericoloso. Havel lo aveva compreso. E un altro Václav, discepolo del grande filosofo ceco Jan Patočka, Václav Bělohradský, aveva capito che il sistema impersonale della scienza costituiva il migliore alleato del potere impersonale totalitario.
Da una prospettiva differente rispetto a quella di Hannah Arendt (vedi qui), anche Bělohradský annunciava questa alleanza, cogliendo un aspetto straordinariamente profondo: sia la scienza moderna che il potere moderno si reggono sulla spersonalizzazione, offerta come garanzia della loro indiscutibile verità. Galilei stringe la mano a Machiavelli. E così il sovrano e l’uomo politico (nel senso nobile del termine) «sono stati rimpiazzati dal manager, dal burocrate, dall’uomo d’apparato […], strumento “innocente” di un anonimo potere “innocente”, legittimato dalla scienza, dalla cibernetica, dall’ideologia, dalla legge, dall’astrazione e dall’oggettività, dunque esattamente agli antipodi rispetto alla responsabilità personale verso gli uomini intesi come persone e come prossimo», spiega Havel.
È questo elogio dell’oggettività spersonalizzata che sta rendendo possibile la più radicale disumanità che la storia abbia mai conosciuto, mediante l’organizzazione scientifica della società e un controllo asfissiante e onnipresente. E tutto questo senza che ci si stracci le vesti quando, non solo il nostro prossimo, ma noi stessi veniamo considerati come pezzi, più o meno utili, di un ingranaggio, materiale che può e dev’essere usato o scartato perché si realizzi il mondo dell’oggettività. Fiat scientia, et pereat mundus.
Quarant’anni fa, Havel descriveva perfettamente il nostro mondo, esploso dopo la pandemia: «Gli Stati divengono simili a macchine; gli uomini si tramutano in insiemi statistici di elettori, di produttori, di consumatori, di malati, di turisti o di militari; il bene e il male […] perdono un senso reale in politica: il solo metodo diviene l’utilità, il solo criterio il successo oggettivamente verificabile e, per così dire, matematizzabile»; e, come faceva notare la Arendt, se il successo non è verificabile nel presente, lo sarà infallibilmente nel prossimo futuro. In ogni caso, conclude Havel, «il potere è a priori innocente, poiché non si sviluppa in un mondo in cui le parole colpa e innocenza abbiano ancora un contenuto».