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MEDIO ORIENTE

Israele e Palestina, alla convivenza non c'è alternativa

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Se davvero si vuole imboccare la strada della pace in Medio Oriente, si devono considerare tutti gli elementi di questo conflitto, ma soprattutto si deve costruire su due pilastri indiscutibili: il diritto a una entità statale palestinese e il diritto all'esistenza di Israele.

Esteri 17_11_2023
Bambine a Gaza

«Non continuate a raccontare le storielle dei poveri ebrei perseguitati». «Certi vostri articoli su Israele e Medio Oriente potrebbero tranquillamente essere ospitati dal Manifesto», intendendo che sono filo-palestinesi.
Riportiamo solo due brevi estratti tra alcune delle lettere che sono giunte in redazione (dai contenuti molto più pesanti), che fanno riflettere. Perché i nostri articoli sono giudicati da qualcuno troppo filo-israeliani e da altri troppo filo-palestinesi. A dimostrazione che spesso davanti a grossi eventi si preferisce schierarsi in tifoserie piuttosto che affrontare la fatica di capire la complessità della situazione. Molto più semplice davanti a un conflitto che dura da 75 anni, ma le cui origini vanno indietro di almeno altri 30 anni, dire «è tutta colpa dei nazi-ebrei» oppure «è tutta colpa dei terroristi palestinesi». Posizioni che peraltro vengono alimentate dalla propaganda delle rispettivi parti in lotta.

Abbiamo già scritto in precedenza sui criteri che la Dottrina sociale ci offre per giudicare questo conflitto come qualsiasi altro, non staremo quindi qui a ripeterci.

Non si tratta di essere equidistanti o di non voler prendere posizione, al contrario: si tratta di prendere in considerazione tutti i fattori che alimentano questo conflitto, guidati dal criterio che, come dice il Compendio di Dottrina sociale della Chiesa, «la pace è il traguardo della convivenza sociale». Il che ci dice anche due cose: se la pace è l’obiettivo, la guerra non è mai lo strumento adeguato per ottenerla, anche se l’uso della forza è a volte necessario per difendersi da un aggressore e difendere gli innocenti. E, secondo, se parliamo di convivenza la soluzione non può mai essere l’eliminazione dell’una o dell’altra parte. Cioè è una pericolosa illusione ritenere che tutto sarebbe meglio se i palestinesi sparissero o se non esistesse lo stato di Israele.  

Questo è invece il vizio di origine non solo tra chi combatte in Medio Oriente, ma di tante posizioni che troviamo anche nei dibattiti in casa nostra e anche in qualche reazione dei lettori. Pensare di ripulire il Medio Oriente da un popolo o dall’altro, dopo decenni di guerra più o meno aperta e di negoziati a intermittenza che non hanno portato a nulla, può sembrare una soluzione conveniente. È quella voglia di «annientamento l’uno dell’altro» che denunciava il cardinale Pierbattista Pizzaballa nei giorni scorsi, ma ha la spiacevole controindicazione che è la strada per un conflitto generale in Medio Oriente e non solo, visto che gli alleati dell’una e dell’altra parte non starebbero certo a guardare.

Dunque vanno risolte anzitutto le due questioni fondamentali, legate fra loro: la creazione di una entità statale palestinese e il diritto all’esistenza di Israele. Perché, ricordiamolo, è stato proprio il rifiuto dei paesi arabi ad accettare la nascita dello stato di Israele che ha dapprima impedito la nascita anche dello Stato palestinese come previsto dalla risoluzione 181 votata all’Onu nel 1947, che divideva in due il territorio della Palestina. E il sostegno ai palestinesi è stato spesso usato dagli altri Paesi arabi per giustificare l’ostilità nei confronti di Israele.
Sicuramente dopo il fallimento dei negoziati nel 2000 che avevano portato a un passo dall’accordo israelo-palestinese sui due Stati, anche in Israele ha finito per prevalere una linea politica contraria allo stato palestinese e che ha pensato di poter garantire la sicurezza nazionale speculando sulla divisione nel campo avverso tra Hamas (che governa Gaza) e Fatah (in Cisgiordania).
Inoltre lo sviluppo degli insediamenti ebraici in Cisgiordania (144 ufficiali più un centinaio non riconosciuti dal governo di Israele per un totale di circa 700mila abitanti) e la violenza dei coloni sono un altro fattore che complica la soluzione. Ma siccome le cose non sono mai semplici, si deve anche ricordare che pure il ritiro dei coloni da Gaza nel 2005, deciso unilateralmente dal primo ministro israeliano Ariel Sharon in base alla politica dei “territori in cambio di pace”, non ha dato i frutti sperati. Come dimostra l’attuale crisi di Gaza. Perché i fattori che contribuiscono al successo o meno di una iniziativa sono sempre molteplici.

Comunque non è meno importante stabilire il principio della legittimità della presenza dello Stato di Israele, perché dietro a tante posizioni fortemente critiche che vediamo anche da noi in Europa, sta proprio la convinzione che, in fondo in fondo, Israele sia lì un corpo estraneo insediatosi grazie al furto dei terreni da parte di organizzazioni sioniste e ai sensi di colpa delle grandi potenze per l’Olocausto avvenuto durante la Seconda guerra mondiale. Anche questo però è un modo di semplificare la storia per giustificare una posizione ideologica. Ciò non significa sostenere qualsiasi cosa faccia il governo di quello Stato, ma solo riconoscerne il diritto all’esistenza. Siamo estremamente critici nei confronti del regime comunista cinese, ma non ci viene in mente di mettere in discussione l’esistenza della Cina o di sostenere la sua annessione da parte del Giappone. Nessuna simpatia neanche per il regime degli ayatollah in Iran, ma sulla legittimità dell’esistenza di quello Stato chi obietterebbe?.
Invece, spesso quando si parla di Israele, la critica al suo governo attuale va a braccetto con la convinzione - o almeno il dubbio – che sarebbe stato più giusto che non ci fosse.

Sta di fatto che non si può risolvere davvero la questione palestinese se prima non si definisce con chiarezza il diritto di Israele all’esistenza. Vale anzitutto per Hamas, per cui la cancellazione di Israele è una ragion d’essere, vale per le altre componenti palestinesi e per gli altri paesi della regione, e vale anche per noi. Perché sentir gridare nelle piazze delle capitali europee lo slogan di una “Palestina libera dal fiume al mare” – che implica cioè l’eliminazione di Israele e perciò l’adesione all’agenda di Hamas – senza che ci sia una qualche reazione almeno intellettuale, la dice lunga sul retropensiero che domina ormai in Occidente. E che non riguarda soltanto il sostegno di una parte contro l’altra, ma anche la tenuta della nostra civiltà. Perché quando ci si comincia a voltare dall’altra parte davanti alla richiesta di eliminare un popolo, una nazione o uno Stato, si pongono le basi per la guerra, anche in casa nostra.

 



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