Non solo Gaza, i coloni israeliani infiammano la Cisgiordania
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Dal 7 ottobre le forze speciali dell'esercito israeliano hanno ucciso 180 palestinesi in Cisgiordania, mentre i coloni approfittano del caos per cacciare le famiglie palestinesi e appropriarsi dei loro terreni. Il rischio di una terza Intifada.
Col trascorrere delle settimane, il numero delle persone uccise a Gaza nel conflitto tra Israele e Hamas è in continuo aumento. Ma c'è anche un "conflitto" sotterraneo e ignorato, quello che si sta consumando in Cisgiordania. Lo stanno attuando, indisturbati, i coloni israeliani con il sostegno dell'esercito e delle forze di polizia dello Stato ebraico. Dall'avvio del conflitto a Gaza, in Cisgiordania ben 180 sono i palestinesi uccisi dalle forze speciali dell'esercito, mentre i coloni che vivono negli insediamenti approfittano del caos per attuare una graduale annessione di altri terreni di proprietà di famiglie palestinesi, motivando i soprusi per autodifesa; insediamenti, va evidenziato, abusivi e condannati dall'Europa e dalle Nazioni Unite perché giudicati illegali e costruiti in territorio palestinese.
Il ministero della Salute dell'Anp, l'Autorità Nazionale Palestinese, in un comunicato ha sottolineato che dall'inizio dell'anno i morti ammazzati dai militari israeliani superano le 370 unità, mentre gli arresti di uomini e donne sono più di 2.200. Secondo l'Organizzazione israeliana per i diritti umani HaMoked, tra il 1° ottobre e il 1° novembre il numero di palestinesi detenuti in via amministrativa, senza accusa né processo, è salito da 1.319 a 2.070.
Il clima di tensione tra coloni e palestinesi sta aumentando e c'è la preoccupazione che possa esplodere e trasformarsi in una terza intifada. Da quel tragico 7 ottobre la militarizzazione dei civili israeliani è aumentata in modo esponenziale. Il governo, guidato da Benjamin Netanyahu, su pressione del ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, leader del partito di estrema destra Potere ebraico, discepolo e ora successore politico del rabbino e militante radicale ebreo-americano, Meir Kahane, morto nel 1990, ha dato il via libera alla "militarizzazione" dei civili. Dal 7 ottobre ad oggi più di 150mila israeliani hanno chiesto una licenza per il porto d'armi. Delle cento città e paesi con la più alta percentuale di licenze, 86 sono negli insediamenti ebraici della Cisgiordania. Nelle settimane successive all'attacco di Hamas, Ben-Gvir ha istituito anche 600 nuove squadre di pronto intervento, sia nelle aree urbane che in quelle rurali, pronte ad intervenire in caso di proteste o attacchi.
Approfittando del clima di guerra, le ronde dei coloni si sono moltiplicate. La popolazione civile palestinese viene prima terrorizzata, poi invitata ad andarsene dai villaggi. Dopo appena qualche mese dall'insediamento del governo Netanyahu, i coloni, appoggiati dalle autorità israeliane, in particolare da alcuni esponenti del governo, hanno portato a termine una serie di attacchi contro i palestinesi nella città di Huwara e nei villaggi di Burin, Assira al-Qibliya, Beit Firuk, Za’tata e Beita. Ma anche a Jenin e Nablus, dando alle fiamme decine di automobili, abitazioni e frutteti. L’obiettivo è cacciare i palestinesi dalle colline a est di Ramallah, dalla Valle del Giordano e dalle alture a sud di Hebron per rimpiazzarli con ebrei.
Ma in Palestina cresce la rabbia, in modo particolare tra i giovani. Ieri mattina, domenica, i coloni ultraortodossi sono entrati nella Spianata delle moschee utilizzando la porta di Mughrabi scortati dalla polizia. Davanti alla moschea di al-Aqsa hanno iniziato a recitare preghiere talmudiche. Una provocazione che non è passata inosservata ai musulmani che vivono nella Gerusalemme est.
A Ramallah, come in altri centri della Palestina, sono state organizzate manifestazioni sia contro la guerra di Gaza, sia contro l'occupazione dei territori da parte israeliana. Le bandiere verdi del partito islamico, considerato un'organizzazione terroristica da Stati Uniti e Unione Europea, sventolano assieme a quelle di al-Fatah, il partito di Yasser Arafat. Non mancano cori e slogan che inneggiano alle brigate di Ezzedin al-Qassan, il braccio armato di Hamas, e al suo capo Mohammed Deif, considerato la mente dell’attacco del 7 ottobre e il primo nome della lista dei ricercati di Israele. Ma nei cortei, non solo a Ramallah, ma anche a Nablus, Jenin e a Betlemme, ci sono molti giovani e ragazzi.
Si coprono il volto con il passamontagna; i bambini, invece, vengono portati in spalla. In caso di elezioni la maggioranza dei manifestanti è a favore di Hamas. Emile Ballout è un giovane di Ein Sinya, un villaggio alle porte di Jifna (Governatorato di Ramallah), ha studiato nelle scuole del Patriarcato Latino e ora frequenta l'Università di Bir Zeit. Dichiara di partecipare alle manifestazioni di protesta: «Ho 25 anni e non ho mai votato. Se ci saranno le elezioni voterò per Hamas. Abu Mazen non ha fatto nulla per difendere la Palestina. Non sto sventolando la bandiera di Fatah o di Hamas, sto issando la bandiera della Palestina».
Nel frattempo, a Gerusalemme, Tel Aviv e in altre città gli israeliani scendono in piazza per chiedere la liberazione degli ostaggi: «Ogni giorno l'angoscia diventa più pesante, sapendo che i nostri cari sono trattenuti in un luogo imprecisato di Gaza e ignorando le loro condizioni», ha detto l'ex presidente di Israele Reuven Rivlin alla folla, che si è accalcata nella piazza di fronte al Museo dell'Arte di Tel Aviv.
Quella di sabato scorso è stata la più grande manifestazione di Tel Aviv, da quando le proteste contro la revisione giudiziaria si sono interrotte improvvisamente – insieme al congelamento dell'iter governativo – lo scorso 7 ottobre, quando Hamas ha inferto a Israele un attacco senza precedenti contro le comunità del sud di Israele, uccidendo circa 1.200 persone, in maggioranza civili, massacrati con disumana efferatezza e rapendone 244, di cui una è stata salvata dalle forze israeliane e quattro liberate da Hamas. A Gaza, invece, sono stati registrati quasi 11mila morti in un mese di bombardamenti, la maggioranza composta da minori e donne. Dati, quest’ultimi, diffusi dal Ministero della Sanità di Gaza (controllato da Hamas) e rilanciati dall’Ufficio dell’Onu per gli Affari Umanitari.
Intanto il fronte con il Libano diventa sempre più caldo. Ieri, domenica, nel primo pomeriggio, almeno sei civili sono rimasti feriti, uno in modo molto grave, nel villaggio settentrionale di Dovev, vicino al confine con il Paese dei Cedri in seguito ad un attacco missilistico anticarro da parte del gruppo terroristico Hezbollah. Distrutti anche diversi veicoli. Alcune delle vittime erano dipendenti della Israel Electric Corporation giunti sul posto per riparare le linee elettriche danneggiate da un precedente lancio di missili.
Il Natale è alle porte. I patriarchi e i capi delle Chiese di Gerusalemme si sono incontrati per lanciare un appello: «Noi, Patriarchi e Capi delle Chiese di Gerusalemme, invitiamo tutti i cristiani a rinunciare a qualsiasi attività esterna e ad organizzare attività ludiche. Contemporaneamente incoraggiamo i nostri sacerdoti e i fedeli a concentrarsi maggiormente sul significato spirituale del Natale nelle loro attività pastorali e nelle celebrazioni liturgiche, con tutta l’attenzione rivolta ai nostri fratelli e sorelle colpiti da questa guerra e dalle sue conseguenze, con ferventi preghiere per una pace giusta e duratura per la nostra amata Terra Santa».
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