Israele-Hamas, criteri per un giudizio
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Nessuna giustificazione è possibile per atti di terrorismo. Ma il diritto a difendersi non legittima qualsiasi reazione violenta che violi la dignità umana. La Dottrina sociale della Chiesa ci insegna come non essere guidati dalle emozioni.
«Entrambe le parti sembrano difettare di una visione strategica, che non sia l’annientamento l’uno dell’altro. Perfino la terra sembra essere passata in secondo piano rispetto alla volontà di reciproca distruzione». Queste drammatiche parole pronunciate dal Patriarca latino di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, in una bella intervista all’Osservatore Romano datata 7 novembre, tutta da leggere, descrivono in modo molto efficace quanto sta avvenendo tra Israele e palestinesi. E Pizzaballa nota anche come le «emozioni» abbiano preso il sopravvento, da una parte e dall’altra.
Ma non solo in Terra Santa, aggiungiamo noi: anche qui in Italia e, più in generale, in Europa e altrove la reazione a quanto avviene in Medio Oriente è guidata dalle emozioni che spingono a dividere politici, analisti e persone comuni in opposte tifoserie. E in un conflitto che dura da 75 anni ma che ha radici ancora più antiche, trovare torti e ragioni per sostenere il proprio schieramento è un gioco da ragazzi. E questo accade purtroppo anche nell’ambito della Chiesa, dove si dimentica troppo spesso che la Dottrina sociale e il Catechismo ci offrono dei criteri molto chiari per giudicare anche situazioni di crisi internazionali come questa. Ciò non vuol dire che la traduzione dei criteri in azioni concrete sia sempre semplice o automatica, ma almeno a quei criteri ci si deve rifare per un giudizio che abbia come obiettivo la vera pace.
Allora è bene ripercorrere i principali avvenimenti di questo ultimo mese lasciandoci guidare dal Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa, che alla “Promozione della pace” dedica un capitolo intero, l’undicesimo (nn. 488-520). Non è possibile qui ripercorrere tutto il capitolo, ma va comunque ricordata una premessa indispensabile: la pace qui descritta come «traguardo della convivenza sociale» discende direttamente dal fatto che «la pace è anzitutto un attributo essenziale di Dio», che «trova il suo compimento nella persona di Gesù». E quindi si realizza come conseguenza dell’«obbedienza al piano di Dio», all’ordine naturale da Dio voluto. Vale per la singola persona e si irradia ai rapporti sociali su su fino alle relazioni tra popoli e governi. La guerra perciò è anzitutto esito della disobbedienza all’ordine voluto da Dio.
Avendo questo ben presente, veniamo allo specifico di quel che sta accadendo, a partire dal 7 ottobre. «Il terrorismo – leggiamo nel Compendio – è una delle forme più brutali della violenza che oggi sconvolge la Comunità internazionale: esso semina odio, morte, desiderio di vendetta e rappresaglia». Quindi non c’è nulla che possa giustificare un atto terroristico, pur riconoscendo che ci sono situazioni di ingiustizia grave che sono terreno fertile per il reclutamento e la formazione dei terroristi. In ogni caso «il terrorismo va condannato nel modo più assoluto». Tradotto: la questione irrisolta dello Stato palestinese non giustifica in nessun modo il massacro di 1400 persone in Israele lo scorso 7 ottobre, né il supporto palese o velato ad Hamas che abbiamo visto in Europa in queste settimane.
Ma la Dottrina sociale della Chiesa ci dice anche che se «esiste un diritto a difendersi dal terrorismo», questo «non può tuttavia essere esercitato nel vuoto di regole morali e giuridiche, poiché la lotta contro i terroristi va condotta nel rispetto dei diritti dell’uomo e dei princìpi di uno Stato di diritto». Vale a dire che, malgrado la tattica dei militanti di Hamas che si fanno scudo dei civili renda difficile operazioni militari “pulite”, non possono essere accettabili bombardamenti indiscriminati che radono al suolo le città, provocano un numero indefinito di morti e centinaia di migliaia di nuovi profughi, come sta avvenendo.
E anche a questa situazione si applicano le quattro condizioni che rendono moralmente legittima la risposta a un’aggressione: la gravità e la certezza del danno subito; l’impraticabilità o l’inefficacia di altri mezzi; la fondata probabilità di successo; l’attenzione a «che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare». Soprattutto l’ultimo punto appare problematico se guardiamo all’azione del governo israeliano. Ha proprio ragione il cardinale Pizzaballa, quel che vediamo è proprio un desiderio di annientamento che sfida anche la logica, visto che il rischio di un allargamento e di una escalation incontrollabile è molto concreto. Né possono essere accettate come soluzioni alcune delle ipotesi o intenzioni ventilate in questi giorni da esponenti politici israeliani, tipo una nuova occupazione della Striscia di Gaza e il trasferimento di una parte imprecisata della popolazione palestinese in campi profughi, anche fuori dalla Striscia.
Se l’eliminazione di Hamas dal territorio palestinese è un obiettivo giustificato, non tutti i mezzi per ottenerla lo sono. E comunque resta il fatto che «la collaborazione internazionale contro l’attività terroristica non può esaurirsi soltanto in operazioni repressive e punitive», c’è bisogno anche di «un particolare impegno sul piano politico e pedagogico per risolvere, con coraggio e determinazione, i problemi che in alcune drammatiche situazioni possono alimentare il terrorismo».
Vale a dire che la grave situazione di crisi che si sta vivendo deve almeno spingere a trovare quella soluzione al problema palestinese che da 75 anni mantiene il conflitto in Medio Oriente e non solo. Non è un problema soltanto di Israele, lo è anche dei Paesi arabi che, come ricordava alcuni giorni fa sulla Bussola il nostro Eugenio Capozzi, sono stati i primi ad aver sempre rifiutato la soluzione dei “due popoli, due Stati” con Gerusalemme sotto uno statuto internazionale. E che tuttora sostengono i gruppi terroristi contro Israele. Ed è un problema che coinvolge anche gli sponsor internazionali dei rispettivi schieramenti (Stati Uniti, Cina, Russia).
Certo, quello che sta accadendo in quest’ultimo mese rende tutto più difficile, «qualcosa si è rotto» ha detto ancora il cardinale Pizzaballa e «ci vorrà molto tempo e molta fatica per ricostruire». Ci vorranno anni, forse generazioni, per ricostruire su queste macerie ma almeno la strada deve essere indicata con chiarezza e iniziata a percorrere, se non si vuole davvero arrivare all’annientamento reciproco.