Islam in Francia, il velo a scuola diventa una moda
Nei licei francesi, fra gli studenti musulmani, gli abiti tradizionali vanno sempre più di moda. L'abito fa il monaco, in questo caso: la rivoluzione dei costumi procede di pari passo con la radicalizzazione delle nuove generazioni. La Francia prova a contrastare il fenomeno, con gli strumenti della sua legge laica.
Nei licei francesi l’abbigliamento islamico è predominante. Velo, abaya (tradizionale abito islamico per donne) e kamis (tunica musulmana per uomini) caratterizzano la nuova moda parigina.
È quello che rileva l’inchiesta de L’Opinion che, a pochi giorni dalle legislative in Francia, ha innervosito Macron e messo subito in gioco, su una questione determinante, il nuovo ministro dell’Éducation nationale. Il quotidiano francese parla di epidemia in un’inchiesta choc che parte dalla denuncia del rettorato di Parigi, secondo cui c’è un “aumento significativo dell’uso di abiti religiosi”. Dall’Oise al Asine fino alla regioni di Clermont-Ferrand e Bordeaux, gli abiti religiosi islamici coinvolgono i licei di quasi tutta la Francia.
Alcune scuole hanno posto il veto sull’indossare gli abiti, altre esitano sull’atteggiamento da adottare e negli ultimi mesi sono scoppiati diversi incidenti in vari licei. A Grenoble, dopo che alle ragazze è stato rifiutato l’ingresso a scuola a causa del velo, un gruppo compatto di studenti si è presentato, il giorno successivo, vestito con abiti islamici tipici di Arabia Saudita e Afghanistan.“Vediamo se parlate ancora di minoranza”, è stato questo il messaggio lanciato al preside. Ragazzi in kamis sono arrivati numerosi davanti alle scuole dell’Aisne il giorno delle vacanze dell’Eid - seconda festività religiosa più importante per l’islam, celebrata alla fine del ramaḍān, così, per farsi vedere.
“Su questo sarò molto chiaro, la politica che voglio condurre è sempre la stessa, quella della verità.Quindi voglio verità, chiarezza su tutti i numeri. E poi voglio che si applichi la legge della Repubblica ”, Macron così ha liquidato la questione, quando a Marsiglia per un appuntamento elettorale è stato interrogato sull’argomento. Aggiungendo, “la legge è molto chiara: per tutti gli studenti nelle nostre scuole non ci sono segni religiosi, qualunque essi siano”.
Abaya e kami, abiti lunghi e larghi, a volte con cappuccio, o tuniche maschili che cadono ai piedi, tipici di un rigoroso wahhabismo – movimento della Penisola Arabica e dell’area del Golfo Persico basato su una rigida interpretazione del Corano - vengono rivendicati dagli studenti come “abiti culturali”. A volte le studentesse si tolgono il velo solo all’ingresso dell’aula per rimetterlo su in cortile o nei corridoi. Quando ad alcune ragazze delle superiori viene chiesto di toglierlo, succede spesso che il giorno dopo a presentarsi velate siano il doppio. “Questa rinascita è una realtà. Il Council of Elders of Secularism sta valutando come rispondere”, afferma Alain Seksig, segretario generale dell’organismo istituito da Jean-Michel Blanquer, ex ministro dell’Educazione nazionale.
Il fenomeno ha acquisito un tale slancio, recentemente, che per una parte della politica e degli analisti, si tratta, non tanto di una daʿwa di successo - l’azione di proselitismo dell’islam -, quanto di un’operazione concertata: una sfida ad incoraggiare gli studenti a testate il proprio liceo e la resistenza delle istituzioni. Secondo L’Opinion, è qualcosa di cui s’è trovata traccia anche sui social al punto l’intelligence territoriale s’è rivolta direttamente al ministero dell’Interno. Il fascicolo sarà rapidamente presentato a Pap Ndiaye ed è già considerato come il primo esame da superare per testare la fermezza sugli attacchi al secolarismo francese. Per il capo dei repubblicani al Senato non si tratta di un semplice fenomeno. “Non siamo di fronte a una moda, ma alla pressione dell’islam politico”, avverte Bruno Retailleau.
La Francia combatte con il velo nelle scuole dal 1989, quando a Creil tre liceali si rifiutavano di toglierlo in classe in nome del rispetto per la loro religione. Con Creil, ci rendiamo conto per la prima volta che l’islam non è un soggetto esterno e transitorio, in Francia come in Europa. Erano state le grandi organizzazioni islamiche ad aver chiesto alle famiglie delle tre ragazze di sfidare la scuola. Bisognava aprire un varco. Perché il velo non è un simbolo religioso. In area islamica la femminilità da sempre viene associata alla concupiscenza, e se sei donna il preteso peccato mortale del mostrare per esempio i capelli e il collo (parti del corpo dalle quali l’uomo non riesce a non sentirsi adescato) rischia di diventare reato. Eppure lo hijab, storicamente, non ha mai rappresentato un dogma nella religione islamica o un simbolo religioso. Diventa strumento dell’islam come alternativa globale, religiosa e politica con il giurista Ibn Taymiyya, nel XIV secolo: il velo serve a creare un confine che separi.
Nel 1989, al tempo di Creil, soltanto una ventina di ragazze erano velate nelle classi francesi. Nel 1994, ce n’erano più di 700. Oggi non si contano più. Secondo lo studio Ifop e della Fondazione Jean-Jaurès, nel 1989 solo il 7% dei giovani fra 18-24 anni frequentava la moschea. Oggi, per la stessa fascia d’età siamo oltre il 40%.
E mentre il dibattito s’infiamma in Francia, la realtà parla da sé. Omar Youssef Souleimane, giornalista siriano scappato in Francia dopo la primavera araba, da un po’ conduce dei laboratori di scrittura nei licei del Paese. Dalla sua esperienza esce una fotografia ben precisa dello stato delle classi francesi, “quando ho lasciato la mia Siria per la Francia, non avrei mai immaginato che un giorno avrei ritrovato la radicalizzazione islamista da cui ero fuggito”. A Trappes, Bobigny, Cergy e Poissy, dice di esser rimasto scioccato di quello che ha trovato nei licei: “un radicalismo islamico che mi ha fatto pensare alla mia adolescenza in Arabia Saudita. Avevo più o meno la loro età durante gli attacchi dell'11 settembre 2001 e sono cresciuto nella glorificazione di bin Laden e di al-Qaeda. Non mi aspettavo di trovare questo in Francia”. Souleimane racconta del progetto che prevedeva che gli studenti scrivessero su 'i tuoi sogni dopo il diploma di maturità', “un adolescente voleva diventare professore di scienze islamiche ad Algeri, molti altri parlavano solo di andare alla Mecca o stabilirsi in Arabia Saudita. In ogni caso, quasi nessuno intendeva rimanere in Francia”.
Molti studenti hanno la foto di Samuel Paty decapitato sul proprio telefono e oltre ai veli sotto il banco, o sul banco, in bella mostra, capita di trovare preghiere in arabo appese al muro. Quanto Souleimane ha chiesto agli studenti di diverse classi chi festeggiasse il Natale, la risposta è stata lapidaria, “nessuno. Non è la nostra festa, siamo musulmani”.
Anche Jean-Pierre Obin, ex ispettore generale dell’istruzione nazionale che nel 2004 redasse il famoso rapporto sulle serie sfide che l’islamismo stava imponendo nel mondo della scuola, è intervenuto con un appello pubblico nella querelle sugli abiti religiosi rivolgendosi direttamente al governo. Per Obin la Francia ha tutti i mezzi legali per resistere all’uso di abiti islamici nelle scuole, ma forse nessuno li vuole usare.