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DOPO LA VISITA

Iraq, applausi al Papa ma ora serve una risposta adeguata

La visita in Iraq di papa Francesco, che ha mostrato come sia praticabile la strada del dialogo, ha indubbiamente generato una speranza nella popolazione. Ma ora tocca ai leader politici e religiosi dimostrare la volontà di posare le armi e combattere la corruzione. E per i cristiani il desiderio del rientro nelle proprie case e terreni - prima occupati dall'Isis, ora dalle milizie sciite - rischia di rimanere tale.

- DA BIDEN ALL'IRAN, GRANDI CONSENSI PER IL PAPA, di Nico Spuntoni

Esteri 09_03_2021 English Español

Bastano le parole entusiaste del Patriarca di Babilonia dei Caldei, il cardinale Louis Raphael I Sako, per dare l’idea del successo della visita in Iraq di papa Francesco - che ieri è tornato a Roma - e della speranza che ha suscitato, anzitutto nei cristiani rimasti nel Paese. Sako ha parlato di un «Avvento» per cristiani e musulmani, e di un «messaggio di conforto e pace» che il Papa ha portato in Iraq. Dopo questi tre giorni molto intensi, il Patriarca si è mostrato molto fiducioso sull’impatto positivo che la visita avrà anche sul piano politico e nel rapporto tra le comunità delle diverse religioni.

È una posizione comprensibile, considerata la situazione dei cristiani in Iraq: erano un milione e mezzo nel 2003, quando l’invasione anglo-americana ha dato il via alla seconda Guerra del Golfo, mentre oggi - dopo anni di guerra civile, dominio dell’Isis e poi ancora guerra civile – sono al massimo 400mila (150-200 mila secondo alcune stime), in gran parte sfollati.

Aldilà del contenuto dei discorsi, è bastato l’arrivo di papa Francesco per ottenere che la comunità internazionale si ricordasse di questo paese distrutto e per ottenere il riconoscimento del diritto dei cristiani ad abitare questa terra. La strategia di papa Francesco, ormai collaudata, è quella di evitare di affrontare le questioni spinose (anche evitando in ogni modo di apparire come “avvocato” dei cristiani) per privilegiare l’incontro personale, valorizzare gli esempi di solidarietà inter-confessionale e puntare su un invito rivolto a tutti per il dialogo come strada per la soluzione dei problemi.

In questo modo, in un Iraq dove anni di guerra hanno creato un muro di diffidenza e ostilità tra le varie comunità, - ci dice don Aisen Elia Barbar, primo salesiano iracheno, attualmente impegnato a Firenze - «il Papa ha sciolto alcuni nodi, ha rotto il ghiaccio». Ha mostrato che ci si può parlare e riconoscere reciprocamente. Da questo punto di vista è stato molto significativo l’incontro con il grande ayatollah Ali al-Sistani che, seppure si sia rifiutato di firmare un qualsiasi documento comune sulla falsariga di quello di Abu Dhabi, ha dato un importante riconoscimento al Papa: si è alzato in piedi per salutarlo, gesto inusuale che dice della dignità che riconosce al suo interlocutore. Per altro è la prima volta dopo anni che al-Sistani si rivede pubblicamente, tanto che in passato in Iraq erano circolate le voci più disparate sulle sue condizioni ed erano stati sollevati dubbi sull’autenticità di alcune foto rese pubbliche.

Le reazioni positive, anche da parte dei musulmani, ci dicono quindi che c’era proprio bisogno di un gesto di questo genere, di vicinanza alle comunità cristiane che hanno sofferto, di abbraccio a tutte le altre minoranze che pure hanno pagato caramente il prezzo di questa guerra, di apertura al dialogo con tutti i leader delle varie comunità e del governo.

Semmai qualche perplessità è generata dal contenuto con cui papa Francesco ha inteso riempire questi gesti. Come ha confermato ieri nella conferenza stampa sul volo di ritorno verso Roma, la strada è quella indicata dal documento di Abu Dhabi e dall’enciclica “Fratelli tutti”, su cui abbiamo più volte espresso delle critiche (vedi ad esempio qui e qui). E anche sull’appello fatto in Iraq alla comune figliolanza da Abramo, che coinvolge ebrei, cristiani e musulmani, abbiamo già avuto modo di rilevarne l’equivocità (vedi qui e qui). Soprattutto dà l’impressione di non comprendere appieno il pensiero islamico - sensazione rafforzata da alcuni passaggi della conferenza stampa in aereo - la loro concezione di Dio, di Abramo e della società.

Laddove non ci si parla da tanto tempo, tornare a guardarsi in faccia e parlare è certamente importantissimo, e nulla può ridurre la portata di questo evento. Ma alla lunga se il contenuto del dialogo non è chiaro si rischia di costruire sulla sabbia e ingenerare ulteriori equivoci.

In ogni caso, la vera sfida per l’Iraq comincia adesso. «Tocca anzitutto ai leader politici e al governo cambiare strategia», dice ancora don Aisen Elia Barbar: «La Chiesa ha fatto anche più del suo dovere, adesso sono loro a dover dimostrare la reale intenzione di disarmale le milizie e porre un freno alla corruzione».

E non è da pensare che da adesso la strada per i cristiani sia in discesa: «Il ritorno dei cristiani dall’estero è ormai impossibile, le condizioni sociali ed economiche dell’Iraq non lo consentono – prosegue don Aisen – ma anche per gli sfollati è molto complicato tornare nei loro villaggi e città: a parlare sono tutti bravi, ma mancano i servizi essenziali, l’elettricità, il lavoro, la sicurezza. Ma soprattutto: dopo la cacciata dell’Isis sono stati gli sciiti a prendersi terreni e case dei cristiani. Pensate che ai cristiani basterà tornare e bussare alla porta per riaverli? È su queste cose che si misurerà veramente la risposta a questo gesto straordinario del Papa».

Né bisogna sottovalutare la profonda divisione che c’è anche nel mondo sciita: l’ayatollah Ali al-Sistani rappresenta una scuola teologica che si oppone a quella teocratica degli ayatollah iraniani, che anche in Iraq ha basi solide.

La possibilità di pacificare veramente l’Iraq, di tornare a una convivenza tra le diverse componenti del paese, deve dunque fare i conti con diversi fattori complessi. Ma qui tocca anzitutto agli iracheni trasformare l’eccezionale atmosfera vissuta in questi giorni in energia per ricostruire il Paese e la società.