Introduzione alle virtù – Il testo del video
Le azioni umane hanno, tra i loro principi interni, le virtù. Esse sono l’agire libero dell’uomo orientato verso il bene e agiscono in sinergia con la grazia. La falsa dicotomia tra natura e libertà. E la concezione puritana da evitare.
Continuiamo le nostre lezioni. Se ricordate, le ultime due sono state dedicate alla legge (vedi qui e qui). Abbiamo visto le tipologie della legge: la legge eterna, la legge divina, la legge umana, la legge naturale. E abbiamo cercato di comprendere che cos’è la legge; in particolare, la legge come principio delle azioni umane: principio, occorre precisare, esterno delle azioni umane, dove “esterno” non significa “estraneo”, altrimenti non sarebbe un principio delle azioni umane, ma sarebbe tutt’altro. È un principio esterno, ma è un principio costitutivo delle azioni umane.
Vi sono altri due principi, questa volta interni, dell’azione umana: le virtù e la grazia. Dunque, vedete che ogni atto umano ha questi tre principi che lo costituiscono: uno esterno e due interni. La legge, nelle sue differenziazioni che abbiamo visto; le virtù, la grazia.
Ora, prima di entrare direttamente nel discorso delle virtù – non faremo un trattato completo di teologia morale, ma cercheremo di accennare qualcosa – cerchiamo di capire che cosa stiamo realizzando, che cosa stiamo mettendo sotto il riflettore nelle varie Ore di dottrina che stiamo facendo.
Se ricordate, siamo ancora fermi al commento del Credo che riguarda la creazione. Abbiamo visto cos’è l’atto creativo, cos’è la creazione delle cose invisibili e delle cose visibili; quindi abbiamo dedicato tutta una serie di incontri alle gerarchie angeliche, alla natura degli angeli, come conoscono, come vogliono, la loro elevazione alla grazia, alla loro beatitudine, eccetera. E poi abbiamo iniziato a vedere quest’altro mistero della creazione che è l’uomo, che fa un po’ da cerniera, se ricordate, tra la creazione materiale e la creazione spirituale. Ora, non stiamo divagando, ma stiamo semplicemente cercando di capire com’è fatto l’uomo, a che cosa è chiamato. In particolare, a noi è molta cara l’idea – cara ai cristiani in generale e in particolare ai pensatori cristiani dei primi secoli –, che troviamo fortemente sviluppata in san Tommaso d’Aquino al punto da costituirne la struttura stessa della Somma Teologica, ossia la duplice idea di exitus e reditus.
Cerchiamo di focalizzare di nuovo questo tema. Noi abbiamo visto che la creazione altro non è che un atto, non solo iniziale ma anche conservativo e governativo, di Dio che crea altro da sé. E creando altro da sé, perché questo altro da sé possa sussistere e avere una sua consistenza, vuol dire che Dio crea un essere partecipato dalle cose. Le cose, tutti gli enti, tutto ciò che esiste è perché riceve il proprio essere e lo riceve nella misura che gli è propria, quella misura che gli è data dalla sua essenza, dalla sua natura, cioè dall’essere albero oppure pesce o uccellino. Questo è il senso.
Ora, questa “uscita” da Dio alla creazione e in particolare da Dio all’uomo – che viene costituito, non è un’altra polarità esistente: l’uomo esiste perché è creato da Dio, che è preesistente; l’uomo inizia ad essere, mentre Dio è, l’uomo ha, riceve l’essere, c’è una disparità – questo primo movimento lo chiamiamo appunto exitus ed è contraddistinto dalla natura, dall’essenza e dalla legge. Che cosa vuol dire? Vuol dire che ogni cosa è ciò che è dato dalla sua natura, voluta e creata da Dio: l’uomo come uomo, il cane come cane, l’albero come albero. Questa natura, che per ora prendiamo come sinonimo di essenza, caratterizza ogni cosa per ciò che è. E che le dà delle operazioni proprie: questo è il senso proprio di natura rispetto all’essenza. Ha degli atti propri, delle operazioni proprie che la contraddistinguono e che nascono dalla sua natura. Per cui, per esempio, l’uomo ha degli atti volitivi e intellettivi che il fiore non ha, che l’uccellino non ha. Ogni cosa agisce, ha degli atti propri, contraddistinti dalla propria essenza, dalla propria natura.
A noi adesso interessa chiudere questo cerchio. Questo exitus, questa uscita mi dice in qualche modo l’essenza, la consistenza di ogni cosa e anche dell’uomo, contraddistinto dalla natura, dall’essenza e dalla legge: la legge mi indica quando qualcosa è conforme o non conforme a una natura propria; ma, attenzione, il cerchio così non è chiuso. Perché non è chiuso? Perché tutte le cose ritornano – ecco il reditus – in qualche modo alla loro sorgente.
Leggiamo due testi di san Tommaso che spiegano questa uscita da Dio alla creazione, da Dio all’uomo, questo exitus, e il ritorno, il reditus, della creazione – a noi interessa adesso l’uomo – alla sua origine, a Dio.
Citiamo un passo del commento di san Tommaso al libro dello Pseudo Dionigi l’Areopagita, Sui Nomi Divini; si tratta del primo libro, al n. 3. San Tommaso scrive: «Ogni effetto si converte alla causa da cui procede [vedete il movimento? Procede da e si converte a: exitus e reditus]. La ragione è questa: perché ogni cosa si converte al suo bene, appetendolo. Ora, il bene dell’effetto proviene dalla sua causa, perciò ogni effetto si converte alla sua causa, appetendola». Un discorso chiarissimo, forse i termini sono un po’ difficili, ma ci dicono una realtà, una verità più semplice, anche per certi versi intuitiva: la causa di ogni cosa, compresa la causa dell’uomo, è Dio, che è fonte di ogni bene. Ogni cosa proviene da un bene: se ogni cosa ha una consistenza di bene è perché in qualche modo l’ha ricevuto. E allora che cosa fa? Si converte, si “ri-direziona” verso la sua origine, verso la sua causa, appetendola, cioè tendendo a: nel caso dell’appetito razionale, desiderandola.
Un altro testo ci dice la stessa cosa. È sempre il commento al De Divinis Nominibus, ma stavolta è il quarto libro, al n. 8: «Tutto quanto esiste proviene dalla bellezza e dal bene che è Dio. E risiede nella bellezza e nel bene come in un principio contenente e conservativo, e si converte alla bellezza e al bene desiderandolo come fine». Un testo straordinario, che ci dice il senso di tutto. Ripeto: tutto «proviene dalla bellezza e dal bene che è Dio». Cioè, in principio c’è un bene, c’è una bellezza. Potremmo dire anche che c’è una razionalità, un ordine. ne abbiamo già parlato nella scorsa lezione a proposito della legge eterna.
Dunque, tutto quello che esiste, esiste perché proviene da questo bene e da questa bellezza. Poi cosa dice il testo? «Risiede nella bellezza e nel bene come in un principio contenente e conservativo». Ricordate l’idea della creazione come conservazione nell’essere. E quindi non è solo una conservazione nell’essere, ma è la conservazione nell’essere buono e nell’essere bello, nel senso del libro della Genesi: Dio crea e vede che è una cosa buona. Cosa buona e cosa bella sono due aspetti profondamente congiunti, che sono legati al fatto che sono. Perché le cose che sono, sono anche belle e sono buone? Perché provengono da Colui che è l’essere, che è il bene e la bellezza stessa. E dunque portano un’impronta di questa bellezza e bontà originaria nel loro essere.
Attenzione, ultimo passaggio: si converte a questo bene e a questa bellezza da cui provengono, «desiderandolo come fine». Il senso di ogni cosa, il fine di ogni cosa, la realizzazione di ogni cosa è proprio questo riconvertirsi alla propria origine, appetendola o desiderandola, nel caso dell’appetito razionale umano, che è come dire che in ogni cosa è impresso il motore del suo ritorno a Dio. Ogni cosa raggiunge il suo fine precisamente in questa conversione verso la sua origine, in questo ritorno.
Ora, quando parliamo dell’uomo, parliamo di colui che ha ricevuto un’immagine vera e propria: quindi abbiamo un esemplare originario – Dio, exemplar – e abbiamo un’immagine di Dio buono – imago.
Cosa vuol dire essere questa immagine di Dio? Vuol dire che, a differenza delle altre creature, eccetto gli angeli, l’uomo è principio delle proprie operazioni. Cioè, non attua, per così dire, questo reditus semplicemente come istinto, ma egli è principio dei propri atti, delle proprie azioni. E dunque cosa fa? A cosa è chiamato? A orientare egli stesso i propri atti verso questa origine. Ha già una tendenza che gli è data dalla sua natura – abbiamo visto l’apertura dell’intelletto al vero, l’apertura della volontà al bene, in modo tale che travalichi il bene particolare, quindi è un’apertura potenzialmente infinita; perché l’uomo è fatto appunto per questo ritorno verso Colui che è il Bene infinito, il Vero infinito, il Bello infinito.
Ma appunto la natura dell’uomo, la natura che gli è stata data nell’exitus e contrassegnata dall’essere immagine, fa sì che egli debba ritornare, essendo il principio delle proprie azioni. Questo è un punto fondamentale, perché è qui che si innesta il discorso delle virtù.
Cosa sono infatti le virtù? Le virtù sono appunto quell’agire libero dell’uomo orientato verso il bene: il bene proprio di ciascuna virtù e il bene sommo, che è Dio stesso. E ancora, siccome questo fine dell’uomo è unico ed è soprannaturale, questo agire, questo essere principio dei propri atti, dei propri atti buoni, di per sé è assolutamente necessario, costitutivo dell’uomo, ma non è sufficiente ad “attingere” Dio. Non è sufficiente ad attingere il fine soprannaturale: perché questo avvenga è necessario un altro principio interno delle azioni (oltre alle virtù), che è la grazia.
È la grazia che porta con sé le virtù infuse, come vedremo. Ma intanto è importante capire questa dinamica: questo reditus, questo ritorno all’origine, che è il fine della creazione, il fine dell’uomo. Essendo principio dei propri atti, l’uomo non finisce in un fine commisurato, per così dire, alle facoltà, alle potenze operative umane, ma finisce in qualcosa che è superiore alle potenze operative dell’uomo: e da qui vediamo la necessità della grazia. La grazia e la virtù agiscono insieme, in modo sinergico. E agiscono secondo un orientamento che è dato da che cosa? È dato dalla legge, che in ultimo, come abbiamo visto, si risolve nella legge eterna, cioè quella razionalità che Dio ha posto in tutta la sua creazione.
Questo è un po’ il quadro, adesso focalizziamo un po’ meglio il tema delle virtù. Dunque, l'agire dell’uomo, orientato verso questo reditus, è il grande capitolo che ci farà compagnia per un po’, ossia il capitolo delle virtù e il capitolo della grazia.
Faccio una piccola parentesi. Uno potrebbe dire: dov’è finito Gesù Cristo in questo cerchio? Avremo modo di vederlo, ma lo accenno già: il problema umano è che si può trattare solo un aspetto alla volta, ma poi non bisogna perdere di vista l’insieme. Gesù Cristo è presente, non come “comparsa”, ma essenzialmente, sia nell’exitus sia nel reditus. Nell’exitus perché tutto è stato fatto per mezzo di Lui e in vista di Lui; e, come dicono i Padri, l’uomo è imago Dei, immagine di Dio, perché è imago Christi, immagine di Cristo. Dunque, la creazione dell’uomo non viene recuperata dopo da Gesù Cristo, ma è già immagine di Dio, in particolare del Verbo che si incarnerà. Tutta la creazione nel suo exitus segue questo modello che è Gesù Cristo stesso. Ma Gesù Cristo è anche il principio del reditus, perché Cristo unisce Dio e l’uomo, unendo nella sua Persona le due nature [divina e umana], le due “polarità”. E anche perché, in quanto Redentore, restituisce, ridà la grazia che l’uomo aveva perso con il peccato, recupera l’uomo, lo restaura – questo è un termine molto caro alla Tradizione – e lo riporta, attraverso la grazia e, in specifico, la grazia sacramentale, a Dio. Che poi è il senso che si racchiude, in piccolo, per così dire, nella vita stessa di Cristo, che esce dal Padre – san Giovanni usa questo vocabolario, «sono uscito dal Padre… e ritorno al Padre»; in Cristo, come vedete, si condensa, si abbrevia tutto il senso della storia e della Redenzione: uscire da, tornare a. Chiudo questa parentesi, che era per dare un’idea del quadro completo.
Dunque, torniamo al fatto che l’uomo è principio delle proprie azioni. Questo ritorno non può avvenire a prescindere dal fatto che l’uomo sia il principio dei propri atti, a prescindere dalla sua intelligenza e dalla sua volontà: sarebbe una contraddizione, sarebbe tradire la sua natura.
L’uomo viene al mondo con una prima perfezione: la perfezione della sua natura, che è una perfezione, ma è una perfezione relativa, ne abbiamo parlato. L’uomo non nasce già con una perfezione compiuta, ma con una perfezione relativa. E deve poi compiere un percorso – questa è la sua storia – durante il quale matura, fa crescere questa prima perfezione, per raggiungere una seconda perfezione, che è quella propria dell’agire buono dell’uomo. L’uomo costruisce la sua perfezione mediante atti virtuosi, cioè atti buoni che lo rendono buono. E, potremmo dire, c’è una terza perfezione, che è una perfezione soprannaturale, che è quella che nasce da una dinamica teologale; abbiamo già parlato delle virtù teologali, ma cercheremo di recuperare un po’ questo tema per avere il quadro un po’ più completo.
In questo processo, tra la prima perfezione (una perfezione di natura) e la perfezione che l’uomo si costruisce attraverso i suoi atti, gli atti morali, gli atti buoni e gli atti teologali, gli atti soprannaturali, è qui che si colloca la sua sublimazione oppure, tragicamente, la sua corruzione. Questa storia dell’uomo consiste nelle scelte concrete che lui fa, il suo modo di agire: i suoi atti umani determineranno la sua sublimazione, il suo perfezionamento, oppure la sua corruzione, la sua decadenza.
Quando parliamo dell’uomo, parliamo chiaramente di tutto l’uomo: nelle sue facoltà intellettive, l’intelletto e la volontà; sensitive, dunque gli appetiti come l’irascibile e il concupiscibile; le facoltà conoscitive sensitive, i cinque sensi, i sensi esterni o i sensi interni, (adesso non entro in questo dettaglio); e anche la sua parte vegetativa, la sua potenza generativa, la sua potenza nutritiva. Tutto l’essere, con le parti inferiori che vengono, per così dire, inglobate in quelle superiori. È questo tutto il processo della vita dell’uomo. La vita vegetativa dell’uomo, la sua nutrizione e la sua capacità generativa, la sua riproduzione non sono atti non umani, come se fossero uguali a quelli dell’animale, ma queste potenze devono gradualmente essere inglobate nelle facoltà superiori. Per esempio, quelle sensitive vanno inglobate in quelle intellettive; quelle intellettive, a loro volta, puntano all’unione con Dio, al ritorno a Dio. Vedete dunque la bellezza della vocazione umana e qual è il senso della storia dell’uomo, giorno per giorno, atto dopo atto, nella concretezza della vita.
Ma anche tutto l’agire umano, tutti gli atti umani sono coinvolti in questo perfezionamento. E quali sono questi atti umani? Classicamente vengono raggruppati in tre categorie: sono gli atti speculativi, che terminano nella contemplazione, dunque le cosiddette virtù dianoetiche, come la scienza, la sapienza, che appunto riguardano l’ambito speculativo, quello che i greci chiamano theoria, che non è una roba astratta, è il bene proprio dell’intelletto, questo vuol dire; sia in ambito puramente teorico, come la scienza e la sapienza, o in ambito più pratico, come ad esempio la prudenza. La prudenza fa da ponte tra le virtù speculative e quelle morali perché in fondo è comunque una conoscenza, ma una conoscenza legata all’atto stesso, più che alla contemplazione.
Dunque, abbiamo questo primo gruppo di virtù – impropriamente dette virtù, ma a noi interessano per dare il quadro.
Poi abbiamo le “virtù-virtù”, cioè le virtù propriamente dette: che cosa sono? Le azioni morali, quelle che i greci chiamano praxis, che non ha niente a che fare con il nostro senso di prassi. La praxis è proprio l’atto che finisce in sé. Cosa vuol dire che finisce in sé? Vuol dire che modifica l’uomo che lo compie, e dunque lo rende o buono o malvagio. La virtù non è qualcosa di esterno all’uomo, la virtù è qualcosa che parte dall’uomo e in qualche modo ritorna all’uomo, rendendolo buono, se è virtù, o cattivo, se è vizio.
E poi abbiamo un terzo gruppo di atti umani, che sono gli atti produttivi, in greco poiesis, cioè quegli atti che finiscono fuori di sé. In che senso fuori di sé? Le arti umane, che realizzano qualche cosa. E quel qualcosa è in qualche modo esterno all’uomo. Questo è tutto l’agire dell’uomo, è attraverso tutto questo che si realizza questo ritorno; vediamo dunque che non c’è nulla nella vita dell’uomo che sia escluso da questo reditus, tutto è incluso, tutto proviene da e ritorna a.
Ora, perché mi è sembrato opportuno dedicare un’Ora di dottrina per fare un po’ il quadro della situazione sulle virtù, che è una sorta di sintesi del percorso che abbiamo fatto fino adesso? Perché il discorso sulle virtù, e vedremo anche quello sulla grazia, è purtroppo terreno di tantissimi fraintendimenti ed errori, che a loro volta generano altri errori. Non sono errori puramente astratti, sono errori che determinano il fallimento della vita stessa dell’uomo.
E quali sono questi errori? Principalmente, intravedo una prima categoria di errori, che sono quelli che creano una dicotomia tra natura e libertà: “se c’è la libertà, la natura deve essere tolta perché è un vincolo; la natura deve quindi essere rifatta dalla libertà” o, viceversa, “se c’è una natura, la libertà in fondo non esiste, non è altro che un seguire la natura quasi in modo istintivo”. Non è così, come abbiamo visto: natura e libertà sono due aspetti di questo movimento circolare, l’exitus – o prima perfezione che l’uomo acquisisce e che quindi indica chi è l’uomo e che cosa comporta questo essere uomo e non un fiore – e il reditus, per cui l’uomo è realmente il principio delle proprie azioni. E quindi c’è realmente una libertà dell’uomo, una libertà che va nella direzione delle virtù.
Dunque, è una falsa dicotomia quella tra natura e libertà, così come è una falsa dicotomia quella tra natura e grazia. Se è chiaro il percorso, se è chiaro che il fine unico e ultimo dell’uomo è la beatitudine, comprendiamo che l’uomo torna tutto a Dio, con tutta la sua natura, perfezionata dagli atti morali e sopraelevata dalla grazia senza la quale è impossibile attingere a questo fine ultimo soprannaturale. Dunque, è una falsa dicotomia quella tra natura e grazia, il che non vuol dire evidentemente che sono la stessa cosa.
Dall’altra parte, un altro problema è quello di pensare la vita umana, la vita morale come obbedienza alla legge versus (contro) eliminazione della legge: entrambe sono polarità sbagliate. Cioè, l’obbedienza alla legge non è un’obbedienza formale, a qualcosa di esterno all’uomo, perché, come abbiamo visto, la legge, la virtù e la grazia sono tre principi costitutivi dell’atto umano. Dunque, non abbiamo una pura obbedienza alla legge che non abbia nulla a che fare con la grazia e con le virtù. E dall’altra parte non possiamo neanche pensare a una vita umana nella quale la legge non sia inclusa, perché la legge mi dice la razionalità del reale, il senso del reale, la legge del reale. In questo caso di quel reale che è l’uomo stesso.
Ultimo problema, più specifico delle virtù. C’è stata, e in parte c’è ancora, una concezione puritana delle virtù, che ha reso insopportabile il discorso delle virtù, come se coincidessero esclusivamente con un senso del dovere: “Si deve fare perché si deve fare, punto”. In realtà, il passaggio utile per riscoprire il valore, la bellezza della virtù e non avere una reazione opposta – ad esempio “le virtù non ci interessano, perché a noi interessa la grazia”, c’è molto questo sottofondo anche in un certo mondo cattolico – è quello dal dovere all’essere buono.
Cioè, la virtù non è semplicemente “ho fatto quel che dovevo”. La virtù è un atto umano che, come abbiamo visto, finisce in sé stesso; e dunque, quando raggiunge il bene rende l’uomo stesso buono. Perciò, comprendete come la virtù sia imprescindibile nella vita umana: non è puramente essere a pari con i miei doveri, avere assolto doveri formali, di etichetta; è tutt’altro, è proprio la dinamica dell’essere buono dell’uomo, del perfezionamento dell’uomo dalla natura all’acquisto dell’habitus virtuoso.
Vedete questo dinamismo: è tutto collegato e rientra in un piano unitario, che dobbiamo sempre tener presente per evitare errori clamorosi, pericolosi, molto diffusi, che di volta in volta cercano di decapitare, di tagliare una parte del discorso, spesso magari per reagire a un’eccessiva enfasi. Ma non si risponde a un errore con un contro-errore, non si risponde a un’eccessiva enfasi con un’altra eccessiva enfasi, ma recuperando il quadro, recuperando la visione d’insieme, la relazione delle parti tra di loro e il loro collocarsi nell’unità dell’insieme.
La prossima volta faremo un passettino in avanti sul discorso delle virtù: non ci staremo all’infinito, ma qualche cosa la dobbiamo dire, proprio per completare questa prima grossa sezione del commento al Credo che riguarda la creazione, in particolare la creazione dell’uomo.
Introduzione alle virtù
Le azioni umane hanno, tra i loro principi interni, le virtù. Esse sono l’agire libero dell’uomo orientato verso il bene e agiscono in sinergia con la grazia. La falsa dicotomia tra natura e libertà. E la concezione puritana da evitare.
Le divisioni della legge – Il testo del video
Ci sono diversi tipi di legge. Ogni vera legge implica una ordinatio rationis e dunque ha il suo fondamento nel Logos: Dio. La legge eterna partecipata alla creatura razionale si chiama legge naturale. La necessità delle leggi umane e della legge divina positiva.
La legge e i suoi effetti – Il testo del video
Le azioni umane, buone o cattive, hanno dei principi interni e dei principi esterni. Tra quelli esterni c’è la legge. La definizione classica di legge: quattro aspetti. Perché una legge iniqua non è una vera legge. Legge e virtù.
Creazione, riflesso di Dio - Il testo del video
Il fine soggettivo della Creazione - che è opera di tutte e tre le persone della Trinità - è la libera bontà di Dio, che vuole condividere il proprio bene. Il fine oggettivo, cioè lo scopo di ciò che è creato, è perciò la gloria di Dio. Ogni cosa creata porta in sé l'impronta del Creatore. Per questo il primo atteggiamento che dobbiamo avere davanti alla creazione è un atteggiamento di contemplazione, non di uso.