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SUICIDIO ASSISTITO/5

Il Ddl Bazoli renderà le persone più fragili

Le Dat consentono già di interrompere qualsiasi trattamento terapeutico e di sostegno vitale, ma se il Ddl Bazoli verrà approvato si estenderà la possibilità del suicidio assistito a tante categorie ritenute “improduttive” e “costose”. Lo Stato, così, aiuterà i fragili a sentirsi più fragili. E il ruolo del medico ne uscirà ulteriormente stravolto.

Vita e bioetica 28_03_2022

Proseguiamo con l’analisi (leggi QUI, QUI, QUI e QUI le prime quattro puntate), da parte del magistrato Giacomo Rocchi, del testo unificato Bazoli-Provenza sul suicidio assistito. Nel seguente articolo si esamina il progetto di legge come approvato dall’Aula della Camera (che ha modificato il testo uscito dalle Commissioni II e XII di Montecitorio) e ora all’esame del Senato.

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A COSA SERVE LA LEGGE SUL SUICIDIO ASSISTITO

Nella discussione su questo progetto di legge rischiamo di dimenticare il punto in cui siamo già arrivati, così da non comprendere appieno lo spazio che il progetto intende coprire.

Sappiamo che i fautori dell’eutanasia mirano ad eliminare quanto prima gli uomini che appartengono a categorie ritenute inutili, costose, improduttive, scandalose: bambini malati, disabili fisici o mentali, malati cronici, anziani pensionati (soprattutto se poveri). Dietro la maschera dell’autodeterminazione terapeutica e del diritto di rifiutare le cure si nasconde un meccanismo che facilita in ogni modo la soluzione letale per queste persone.

In Italia, la legge n. 219 del 2017 (quella conosciuta come “legge sulle Dat”) ha permesso un grande balzo in avanti verso questo obiettivo: permette ai genitori di minori e ai tutori e amministratori di sostegno di ordinare l’interruzione di qualsiasi trattamento terapeutico e di sostegno vitale agli assistiti, facendo diventare quella di Eluana Englaro la prima di molte altre uccisioni; attribuisce ai pazienti il diritto di rifiutare ogni trattamento salvavita e di ordinarne l’interruzione, così trasformando il caso Welby nel modello da seguire e da attuare. Le disposizioni anticipate di trattamento (Dat) permettono, poi, di mettere un’ipoteca per il futuro, nel caso la persona non sarà più cosciente, consentendo di sopprimerla. 

Cosa manca? Manca la possibilità di ottenere la morte di coloro che, al contrario di Welby, non dipendono da un macchinario né devono sottoporsi a terapie salvavita (ad esempio: chemioterapia) ma, ugualmente, fanno parte delle categorie di cui si è detto. Ecco: se la legge sarà approvata queste persone potranno chiedere di essere aiutate a morire; perché - lo possiamo immaginare - la stragrande maggioranza di loro non avrebbe il coraggio e la forza di suicidarsi autonomamente: quindi, dice il premuroso legislatore, “aiutiamole”! Lo facciamo per la loro “dignità”!

In realtà, così come era già avvenuto con l’espressa previsione della possibilità di rifiutare le terapie salvavita, questa legge, facendo sorgere per queste persone una possibilità che prima non esisteva - quella di essere aiutati a morire -, le renderà più fragili, meno tranquille: davvero vale la pena di continuare a vivere? Ma l’effetto maggiore di questa legge sarà sulla società: accetteremo di dire a certe persone che la loro vita è inutile e che, premurosamente, siamo disposti ad aiutarne la fine? Accoglieremo, quindi, la classificazione delle vite umane per categorie: alcune valgono di più, altre non servono più, è meglio eliminarle.

MEDICO, CHI SEI?

Il mutamento della figura del medico è un fenomeno che è iniziato molti decenni fa: abbiamo tutti sentito parlare della scomparsa del “medico paternalista”, quello che decideva per il paziente senza nemmeno spiegare le sue decisioni, e dell’irruzione del “consenso informato” nel rapporto medico/paziente, con il secondo che ha diritto a farsi spiegare bene la diagnosi e le terapie e di rifiutare quelle che non approva. La legge 219 del 2017 stabilisce espressamente che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata” e menziona “l’autonomia decisionale del paziente”. Il medico “è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”: in cambio, “è esente da responsabilità civile e penale”.

Dalla condotta “in scienza e coscienza” del medico si scivola velocemente ad un elenco delle cose che egli non può fare e che, invece, deve fare: deve interrompere le forme di sostegno vitale quando il paziente lo chiede (ad esempio: spegnere un respiratore artificiale), non può effettuare terapie, anche salvavita, ma deve alleviare le sofferenze del paziente anche se sta morendo perché ha rifiutato le terapie salvavita che gli aveva proposto; quando si trova davanti un paziente in stato di incoscienza che ha firmato una Dat non può salvargli la vita anche se sarebbe possibile.

Qual è il ruolo del medico nel progetto di legge? Già il titolo del progetto (“Disposizioni in materia di morte medicalmente assistita”) indica che egli deve prestare assistenza a questo suicidio. In che modo? Deve “attestare” che il paziente è affetto da patologia irreversibile e con prognosi infausta (art. 3: è una delle due condizioni richieste per accedere al suicidio assistito), deve ricevere la richiesta di suicidio assistito, che è indirizzata a lui (art. 4, comma 3), deve parlare con il paziente facendogli presente le conseguenze di quanto richiesto e le possibili alternative terapeutiche (abbastanza grottesco: il paziente ha chiesto di morire e il medico gli spiega cosa comporta?) (art. 4, comma 4); deve prospettargli la possibilità di cure palliative; deve redigere il rapporto dettagliato da inoltrare al Comitato di valutazione clinica (art. 5); deve trasmettere alla Direzione sanitaria dell’Asl o dell’ospedale il parere favorevole del Comitato e la documentazione relativa al paziente (art. 5, comma 7); deve essere presente al decesso per verificare la persistenza della volontà del soggetto di morire (art. 5, comma 10: il medico può essere lo stesso ovvero un altro). Ci sono, poi, dei medici che, per conto dell’Asl o dell’ospedale che devono attuare il suicidio assistito, dovranno verificare le modalità di esecuzione (art. 5, comma 7), in modo che la morte avvenga “nel rispetto della persona malata e in modo da evitare ulteriori sofferenze ed evitare abusi”: sceglieranno, quindi, anche il veleno più adatto da somministrare al paziente.

Ecco, questo è il medico che il progetto vuole: burocrate, esente da responsabilità (l’art. 8 del progetto esenta il medico che abbia dato corso alla procedura di suicidio assistito dalla responsabilità per i delitti di aiuto al suicidio e omissione di soccorso), disposto a contribuire al suicidio del paziente.

Qualcuno ricorderà che la Corte di appello di Milano, nell’autorizzare l’uccisione di Eluana Englaro e nel dettarne le modalità esecutive, fece riferimento alla “migliore pratica della scienza medica”; il ruolo assegnato ai medici era di far morire Eluana Englaro con il “minor disagio possibile”: i sedativi e gli antiepilettici somministrati nella misura strettamente necessaria a questo scopo, le mucose frequentemente umidificate e la “somministrazione di sostanze idonee ad eliminare l’eventuale disagio da carenza di liquidi”. La presenza del medico al momento della morte - un medico è sempre presente anche nelle esecuzioni capitali negli Stati Uniti - è il sigillo di questo ruolo: egli eserciterà il “controllo del Servizio sanitario nazionale” (art. 2, comma 1) per verificare che tutto vada liscio.

Ci sono vie d’uscita? Il medico che riceve la richiesta di suicidio assistito potrà rifiutarsi di trasmetterla al Comitato “qualora ritenga che ne manchino palesemente i presupposti e le condizioni” (art. 5, comma 4): un atto che permetterà al professionista di tirarsi fuori dalla procedura ma che non impedirà che la stessa prosegua, perché il richiedente potrà scegliere un altro medico (ricordiamoci che il dr. Riccio venne nominato medico curante da Welby pochi giorni prima di ucciderlo, in sostituzione del medico che si era rifiutato di acconsentire alle sue richieste) e potrà, comunque, rivolgersi al giudice; oppure il medico, con preventiva dichiarazione, potrà sollevare obiezione di coscienza (e, come lui, tutti gli esercenti la professione sanitaria, art. 6).

Quella dell’obiezione di coscienza - con ogni evidenza - è l’unica scelta che permetterà a un medico di continuare ad operare come tale: il medico cura, non uccide né contribuisce alla morte volontaria del suo paziente.

5. Continua