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SUICIDIO ASSISTITO/3

I “paletti” fragili del Ddl Bazoli

L’art. 3 del testo unificato Bazoli-Provenza da un lato riprende la già discutibile sentenza 242/2019 della Consulta (caso Dj Fabo), ma dall’altro la peggiora ampliando a dismisura la platea di possibili suicidi per legge. Molto labile è anche il “paletto” dei trattamenti di sostegno vitale, inteso in senso sempre più largo dai tribunali.

Vita e bioetica 12_03_2022

Proseguiamo con l’analisi (leggi QUI e QUI le prime due puntate), da parte del magistrato Giacomo Rocchi, del testo unificato Bazoli-Provenza sul suicidio assistito come uscito dalle Commissioni II e XII della Camera dei Deputati. L’Aula di Montecitorio, intanto, ha approvato giovedì 10 marzo il progetto di legge (con qualche modifica, vedi QUI), che ora passa all’esame del Senato.

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Chi ha il diritto di essere aiutato dallo Stato a suicidarsi? L’art. 3 (“presupposti e condizioni”) del progetto di legge Bazoli-Provenza uscito dalle Commissioni II e XII della Camera descrive la condizione in cui il soggetto si deve trovare. Leggiamo attentamente e cerchiamo di capire per chi davvero è dettata la norma: “Tale persona deve… a) essere affetta da una patologia attestata dal medico curante e dal medico specialista [un emendamento approvato in Aula alla Camera ha poi stabilito che basterà solo un certificato, dell’uno o dell’altro medico, vedi QUI, ndr] che la ha in cura come irreversibile e con prognosi infausta, oppure essere portatrice di una condizione clinica irreversibile, che cagionino sofferenze fisiche e psicologiche che la persona stessa trova assolutamente intollerabili; b) essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente”.

La norma riprende la sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019. Tenendo presente la condizione di Fabiano Antoniani al momento del suicidio in Svizzera – egli non dipendeva del tutto dal respiratore artificiale (come Piergiorgio Welby), cosicché il distacco del macchinario non avrebbe provocato una morte rapida, ma un’agonia di alcuni giorni, che egli reputava non dignitosa anche se fosse stato sottoposto a sedazione profonda, che non lo avrebbe fatto soffrire – la Corte affermò che, in questi casi, il soggetto ha diritto a farsi aiutare nel suicidio: una soluzione più “dignitosa” di quella, già prevista dalla legge 219 del 2017, del distacco a sua richiesta del macchinario di sostegno vitale.

Quindi: una soluzione dettata per pochissimi casi. Ma, come abbiamo già detto, i diritti tendono ad espandersi e i casi rischiano di aumentare. Cosa si intende per “condizione clinica irreversibile”? Il diabete vi rientra? E l’infezione da HIV? Le patologie cardiache degli anziani? L’artrosi? Si parte dalla condizione assolutamente particolare in cui si trovava Antoniani per giungere rapidamente a un’ampia platea di possibili suicidi per legge. Diciamolo chiaramente: con questa norma, prima o poi, ciascuno di noi si troverà nella condizione descritta dal progetto di legge.

Ma il progetto prevede che questa condizione produca sofferenze; anzi, pretende che quella condizione produca sia sofferenze di carattere fisico che di carattere psicologico (la Corte Costituzionale, invece, faceva riferimento a “sofferenze fisiche o psicologiche”, quindi ritenendo sufficienti quelle psicologiche per legittimare il suicidio assistito): ma è evidente che ogni condizione clinica irreversibile produce, in misura maggiore o minore, sia sofferenze fisiche che sofferenze psicologiche; soprattutto, il “paletto” si dimostra fragilissimo (meglio: fittizio) perché è la persona che chiede di essere aiutata a suicidarsi a dover valutare la misura di tali sofferenze (“che la persona stessa trova assolutamente intollerabili”)! In sostanza, anche sofferenze oggettivamente lievi sono sufficienti per il suicidio assistito.

A ben vedere, in base al progetto, la situazione psicologica del malato non è differente da quella di tutti i suicidi. Il suicida (o colui che intende suicidarsi o che, in qualche modo, desidera morire) è sempre portatore di una intensa sofferenza psicologica o umana, come negarlo? Non siamo tutti Socrate o Piergiorgio Welby, la decisione di farla finita è frutto di un senso di inutilità della propria vita, della mancanza di qualsiasi speranza: appunto, di una sofferenza umana e psicologica che schiaccia la persona. La legge attribuisce il diritto al suicidio assistito a coloro che si trovano nella medesima condizione ma che – in aggiunta – sono affetti da una delle innumerevoli patologie che possono rientrare nel concetto di “condizione clinica irreversibile”, di cui il 99% degli anziani sono sicuramente affetti.

I TRATTAMENTI DI SOSTEGNO VITALE

Si potrebbe, però, sostenere che la platea dei destinatari sia ridotta dalla seconda condizione indicata dall’art. 3: il soggetto deve essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente.

Abbiamo imparato a conoscere i trattamenti di sostegno vitale quando fu uccisa Eluana Englaro: in quella vicenda, si fece morire la disabile di fame e di sete fingendo che il nutrimento equivalga a una terapia, permettendo al tutore di ordinarne la cessazione. Anche Piergiorgio Welby fu ucciso, su richiesta propria, dal dr. Riccio mediante l’interruzione del sostegno vitale alla respirazione. Sono emersi altri casi di morte procurata con l’interruzione della nutrizione/idratazione o della respirazione artificiale. Come sappiamo, la legge 219 equipara le forme di sostegno vitale alle terapie, proprio per consentire di far morire persone che, altrimenti, resterebbero in vita.

Quando, però, si fa un passo avanti verso l’uccisione diretta della persona (il suicidio assistito o l’omicidio del consenziente), la dipendenza da un sostegno vitale si trasforma in un ostacolo, riducendo i casi in cui è possibile sopprimere il malato. Ecco che la giurisprudenza sui casi di suicidio assistito, che aveva concentrato la sua attenzione sul sostegno vitale per consentirne l’interruzione, diventa improvvisamente generica su questo tema. L’assoluzione di Marco Cappato e Mina Welby per il suicidio assistito di Davide Trentini lo dimostra: secondo la Corte di assise di Massa, “la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non significa necessariamente ed esclusivamente dipendenza da una macchina” e “nell’interpretare cosa debba intendersi per trattamenti di sostegno vitale non si deve confondere il caso concreto da cui è originata la pronuncia della Corte Costituzionale con la regola iuris che la Consulta ha codificato”; si giunge alla conclusione che “per trattamento di sostegno vitale deve intendersi qualsiasi trattamento sanitario interrompendo il quale si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida”; e così possono essere sostegno vitale anche un trattamento farmacologico e perfino un’operazione di tipo infermieristico. La Corte di assise di appello di Genova, che ha confermato l’assoluzione di Cappato e della Welby, è andata oltre: poiché il trattamento farmacologico era essenziale per la sopravvivenza di Trentini ed egli aveva diritto ad interromperlo, aveva anche diritto a farsi aiutare nel suicidio.

Nella vicenda di “Mario”, invece, il Tribunale di Ancona ha considerato il pacemaker un trattamento di sostegno vitale.

Ecco che il “paletto” della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, in mancanza del quale l’aiuto al suicidio è ancora reato, soltanto un anno dopo la sentenza della Corte Costituzionale svanisce: come possiamo pensare che lo stesso paletto, indicato nel progetto di legge come limite al dovere dello Stato di aiutare qualcuno a suicidarsi, reggerà?

3. Continua