Il Concilio di Basilea, un’ecumenicità dibattuta
Passato nella nomenclatura come un tutt'uno con quello di Ferrara e Firenze, l'ecumenicità del Concilio di Basilea è tuttavia ampiamente dibattuta, viste le riserve di papa Eugenio IV. Spieghiamo perché non regge il parallelo storico con il Vaticano II.
Il nuovo scisma (vedi qui) non fu una passeggiata, anche se durò “solo” un decennio. Il duca Amedeo VIII di Savoia, che aveva accettato l'elezione a pontefice (in realtà antipapa), con la morte di Eugenio IV e l'elezione di Niccolò V, il 7 aprile 1449 accolse la richiesta di quest'ultimo di rinunciare alla propria carica per riportare l'unione tra i cristiani. Terminò così l'ultimo “antipapato” della storia della Chiesa.
Ma torniamo indietro di dieci anni. Il Concilio di Firenze, voluto da Eugenio IV, si era riunito il 26 febbraio 1439. Il 4 settembre dello stesso anno, il Concilio sostenne il decreto Moyses vir, voluto dal papa, per condannare le derive di Basilea, ritenute invece dal medesimo Concilio come verità della fede cattolica, e il Concilio stesso che, dopo la sua chiusura comandata dal papa, continuava invece a riunirsi e deliberare. Tre in particolare i punti condannati da Eugenio IV: il potere del concilio generale sul papa; la mancanza di autorità del papa di sciogliere, rinviare o trasferire un concilio, senza il consenso di quest'ultimo; la pretesa dell'autorità di un concilio di privare il papa della sua dignità e del suo ufficio. Quanti erano sostenitori di queste tesi e si ostinavano a proseguire l'ormai conciliabolo di Basilea vennero dichiarati eretici e scismatici, nonché rei di interpretare i testi del Concilio di Costanza in un senso «del tutto estraneo alla sua dottrina».
In questo decreto, Eugenio IV sembra voler rivendicare un senso ortodosso dei decreti più problematici di Costanza, in particolare l'Hæc sancta, accusando appunto gli scismatici di Basilea di averlo invece interpretato in senso eterodosso. Quel decreto sembrerebbe pertanto essere stato accolto dal papa, che pure richiedeva di interpretarlo nel senso conforme alla dottrina sul primato. La bolla Dudum sacrum (1433) e le dichiarazioni del 22 luglio 1446 di Eugenio IV ai suoi legati, inviati agli elettori tedeschi, con le quali accettava i concili generali di Costanza e Basilea «dal loro inizio fino alla traslazione da noi compiuta senza tuttavia pregiudizio del diritto, della dignità e della preminenza della santa sede apostolica» sembrano confermare questa lettura.
Ma a ben vedere, proprio con il decreto Moyses vir, Eugenio IV mostrava di non aver affatto recepito l'Hæc sancta come decreto legittimo del Concilio di Costanza; egli infatti faceva prendeva le distanze da «certi decreti (...) emanati da una sola delle tre obbedienze e dopo la fuga di Giovanni XXIII, come era chiamato dai suoi seguaci, quando a Costanza persisteva ancora lo scisma». Il papa alludeva alle prime sessioni del Concilio di Costanza, durante le quali venne approvata tra l'altro l’Hæc sancta, che di fatto portarono a decisioni non propriamente “conciliari”, come aveva fatto intendere anche Martino V (vedi qui l'analisi dettagliata). Inoltre, il tenore della dichiarazione del 1446, sopra riportata, richiamava fortemente il senso restrittivo che già Martino V aveva voluto dare nei propri pronunciamenti: i due concili erano sì accettati, ma nel perimetro di quanto non andava a detrimento delle prerogative della Sede Apostolica.
Determinante per comprendere il pensiero di Eugenio IV, in particolare nei confronti del Concilio di Basilea, è il suo memorandum del 1436, cioè successivo alla seconda versione della Dudum sacrum, con la quale aveva dovuto riconoscere, obtorto collo, tale sinodo. Il memorandum, che venne indirizzato a tutti i principi cattolici, rivela appunto che il papa fu in qualche modo costretto ad accettare il proseguimento del Concilio; uscito dalle strettoie in cui era finito, Eugenio IV denunciava finalmente il tentativo dei “padri” riuniti a Basilea di colpire il primato del romano pontefice: «Rinnovarono inoltre i due decreti dell'antico Concilio di Costanza, quelli oltre i loro limiti e per casi diversi da quelli che erano stati nell'intenzione dei costituenti, estendendoli con grave pericolo della monarchia ecclesiastica e con pregiudizio alla santa sede apostolica» (corsivo nostro); costoro pretendevano, contrariamente a quanto insegnato da tutti i dottori cattolici, «che i concili generali abbiano forza e potere da se stessi, una volta che sono stati riuniti per autorità apostolica, e non dalla Chiesa romana», ritenendo così «che i concili generali non ricevono autorità e fondamento dal Vicario di Cristo», ma direttamente da Cristo stesso.
Un altro punto degno di attenzione riguarda l'ecumenicità del Concilio di Basilea. Passato nella nomenclatura come un tutt'uno con quello di Ferrara e Firenze, l'ecumenicità di quel Concilio è ampiamente dibattuta. È vero che l'assise venne in principio legittimamente convocata, ma le prime sessioni videro la presenza di soli 14 vescovi (tutti gli altri erano teologi, chierici, abati, senza legittimo diritto di voto), e la continua opposizione di Eugenio IV, il quale, come si è visto nell'articolo precedente, lo aveva ripudiato più volte, fino poi alla “capitolazione” con la bolla Dudum sacrum. Dunque, non è possibile ritenere ecumenica quella porzione del Concilio che va dal 23 luglio 1431 al 15 dicembre 1433. E neppure l'altra porzione, che inizia con l'indizione da parte del papa del nuovo Concilio di Ferrara (8 gennaio 1437).
Per quanto riguarda l'approvazione del Concilio degli anni legittimi (1433-1437), essa venne ampiamente ridimensionata dal papa stesso, una volta avviato il nuovo Concilio di Ferrara. Fu infatti lo stesso Eugenio IV a riferire al cardinale Giuliano Cesarini, alla presenza del maestro del Sacro Palazzo Apostolico, il domenicano Juan de Torquemada (1388-1468), di avere approvato, con la bolla Dudum sacrum, il proseguimento del Concilio, ma non tutti i suoi decreti: «non tamen approbavimus ejus decreta» (cit. da A. Baudrillart, in Dictionnaire de Théologie Catholique, t. II, col. 127). Dunque, quell'affermazione, sopra riportata, che il papa consegnò ai suoi legati nel 1446, ossia di aver approvato i concili di Costanza e Basilea «dal loro inizio fino alla traslazione da noi compiuta senza tuttavia pregiudizio del diritto, della dignità e della preminenza della santa sede apostolica», dev'essere compresa non come un'approvazione delle decisioni di quei concili in toto, ma nel senso restrittivo di quei decreti che non sono entrati in conflitto con il primato del papa.
Non trova perciò reale riscontro la tesi di coloro che sostengono che i papi, dapprima Martino V e poi Eugenio IV, avrebbero accettato tutte le decisioni dei concili di Costanza e Basilea, e dunque anche quelli che “canonizzarono” le teorie conciliariste. Tesi che è stata sostenuta, a partire dalla fine del XVII secolo, dai gallicani. Ma di recente, la presunta approvazione da parte dei papi delle decisioni di tenore conciliarista dei due Concili, in seguito esplicitamente condannate, sarebbe per alcuni l'antefatto storico che giustificherebbe la possibilità di un futuro ripudio, in tutto o in parte, del Concilio Vaticano II. Ma il parallelo storico non regge. Abbiamo cercato di mostrare in diversi articoli come le approvazioni di Martino V ed Eugenio IV non erano in realtà tali, o, se si preferisce, lo erano con dei distinguo ben precisi, così come diverse sessioni dei due concili non furono affatto ecumeniche. Al contrario, tutti i documenti del Vaticano II sono stati recepiti nella loro integralità da papa Paolo VI, da tutti i suoi successori, così come da tutti i Padri presenti al Concilio, che hanno controfirmato ogni singolo documento. Inoltre, ogni sessione è stata riconosciuta come appartenente al Concilio ecumenico.
Questo ovviamente non significa che ogni frase dei documenti del Vaticano II sia un dogma, né tanto meno che tale Concilio inauguri l'epoca di una nuova super-chiesa conciliare. Significa che a questi documenti si applicano i criteri teologici consueti e che la loro interpretazione non può che essere nella linea indicata da Benedetto XVI.
Il Concilio di Basilea e il nuovo scisma
Il Concilio apertosi a Basilea nel marzo 1431 si rivelò presto un conciliabolo, dove i vescovi erano pressoché assenti. Eugenio IV lo sciolse, provocando la reazione dei conciliaristi, che infine portò all’elezione di un nuovo antipapa.
Verso un Concilio scismatico
Martino V riuscì, senza esporsi troppo, a evitare di approvare in toto gli atti del Concilio di Costanza e seppe gestire il decreto Frequens, impregnato di ideologia conciliarista. Che però proseguì il suo corso, con la minaccia di un nuovo scisma.
Il Concilio dibattuto
Al Concilio di Costanza (1414-1418) confluirono certi fermenti dei decenni precedenti, che puntavano a ridurre la pienezza della potestà del papa. Il decreto Haec sancta fu frutto di questa tendenza, ma da quel che risulta non fu recepito dal pontefice. L'escamotage di Martino V.
Il conciliarismo
Al Concilio di Costanza fu approvato il decreto Hæc sancta con un paragrafo molto controverso, perché sosterrebbe un’idea eretica, cioè la superiorità dei concili sul papa. Una posizione, il conciliarismo, con sfumature diverse, che affondava le sue radici nei secoli precedenti.
Il Papa legittimo, una risposta alle obiezioni
Un’obiezione frequente al senso dell’“accettazione universale” del Papa fa leva sul dissenso di un gruppo, più o meno esteso, di fedeli. Una seconda riguarderebbe la condizionalità. Obiezioni che non colgono il significato dell’accettazione universale. Vediamo perché