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Ora di dottrina / 111 – Il supplemento

Il Concilio dibattuto

Al Concilio di Costanza (1414-1418) confluirono certi fermenti dei decenni precedenti, che puntavano a ridurre la pienezza della potestà del papa. Il decreto Haec sancta fu frutto di questa tendenza, ma da quel che risulta non fu recepito dal pontefice. L'escamotage di Martino V.

Catechismo 14_04_2024

Il punto più controverso del Concilio di Costanza è stato, e continua ad essere, quel passaggio del decreto Hæc sancta, che pone l'autorità di un concilio al di sopra di quella del papa: «[Questo santo Sinodo di Costanza] in primo luogo dichiara che esso, legittimamente riunito nello Spirito Santo, essendo concilio generale e rappresentando la Chiesa cattolica militante, riceve il proprio potere direttamente dal Cristo e che chiunque, di qualunque condizione e dignità, compresa quella papale, è tenuto ad obbedirle in ciò che riguarda la fede e l'estirpazione dello scisma e la riforma generale nel capo e nelle membra della chiesa di Dio». Si noti anche l'affermazione di un'autorità direttamente ricevuta da Cristo, senza alcun coinvolgimento dell'autorità petrina. Si tratta di un testo chiaramente contrario al senso cattolico del primato petrino e pertanto occorre verificare quale effettiva autorità abbia avuto questo decreto.

Alcuni teologi, tra i quali il più noto è certamente Hans Küng, hanno sostenuto e sostengono che, in quella dichiarazione, i Padri riuniti a Costanza volessero insegnare dogmaticamente la superiorità del concilio sul papa. E che, pertanto, si tratterebbe di una verità di fede. Nel mondo ortodosso si guarda a questo decreto come alla testimonianza che nel mondo cattolico ancora si professava la presunta superiorità dell'assise conciliare, prima che venisse respinta, quattro secoli dopo, dal Concilio Vaticano I. Secondo altri, il decreto Haec sancta sarebbe l'esempio storico del fatto che un concilio possa insegnare un'eresia. Altri ancora, ritengono che la natura del documento – un decreto, appunto – riveli la natura giuridica, contingente e non dogmatica del pronunciamento.

È innegabile che il Concilio di Costanza vide confluire i fermenti dei decenni precedenti, che puntavano a ridurre la plenitudo potestatis del papa (vedi qui). Nella prossimità temporale del Concilio del 1414, Teodorico di Nieheim (1345-1418), dapprima segretario di Urbano VI per poi diventare notaio alla corte papale avignonese, presente al Concilio di Costanza, nel suo De modis uniendiæ reformandi ecclesiam, avanzava una richiesta eloquente: «Il Concilio generale... delimiti e determini la potestà papale coattiva e usurpata». Eco del bisogno vivissimo di mettere un argine all'abuso di potere dei pontefici dell'epoca, ma anche premesse per una pericolosa deviazione dogmatica.

Un altro personaggio di grande caratura intellettuale cavalcava l'idea di un ridimensionamento del papato: si tratta del cardinale Pierre d'Ailly (1350-1420), determinante durante il Concilio per l'elezione di Martino V e la condanna di Jan Hus. Pierre d'Ailly sosteneva la superiorità del concilio sul papa, argomentando che la Chiesa non è affatto fondata su Pietro e i suoi successori, ma su Gesù Cristo. Per questa ragione, non è al papa, ma alla Chiesa, riunita in concilio, che spetta la pienezza della potestà, di cui il vescovo di Roma fa parte, sebbene come principalis inter ministros. Ma essendo questo ruolo principiale in funzione del bene della Chiesa, il papa diviene soggetto al concilio in caso di eresia, di atti contrari al bene della Chiesa o in caso di crimine pubblico.

Una grande influenza ebbe anche la posizione di Jean de Gerson (1363-1429), cancelliere dell'Università di Parigi dal 1395, uno dei tre “papabili” padri dell'Imitazione di Cristo e famoso teologo dell'epoca. Anch'egli ricalcava la posizione di Pierre d'Ailly, ampliando però i casi in cui il concilio possa agire da solo, senza la presenza o il consenso del papa (pazzia, sede impedita). La visione ecclesiologica di Gerson vedeva il concilio come detentore di tutta la potestas della Chiesa, partecipata poi in diversi gradi dal papa fino ai parroci. Dunque il potere del papa sarebbe il più alto, ma pur sempre parte di un potere ecclesiale più ampio, che trova nel concilio la sua istanza suprema, sebbene non ordinaria.

Tutti questi personaggi furono presenti al Concilio di Costanza e finirono per esercitarvi una forte influenza, di cui la Hæc sancta è testimonianza eloquente. Tuttavia, ancora non è chiaro se la dichiarazione sia stata recepita da papa Martino V (1369-1431), dalla cui approvazione, in una corretta visione ecclesiologica, dipende infatti l'autorità vincolante per tutta la Chiesa di ogni decisione di quel concilio.

Cerchiamo di capire meglio. La Hæc sancta appartiene alle prime fasi, le più concitate, del concilio, in specifico alla IV e alla V sessione, quando ancora né l'unico papa legittimo, Gregorio XII, né l'antipapa Benedetto XIII avevano confermato il concilio. L'altro antipapa, Giovanni XXIII, che pure quel concilio aveva voluto, proprio durante queste due sessioni cercò di fuggire, odorando una sua prossima condanna. L'approvazione di Gregorio arrivò solo a partire dalla XIV sessione, e si estendeva a tutte quelle decisioni utili «per l'unione e la riforma della Chiesa e per l'estirpazione dell'eresia».

Dunque, perché il decreto Hæc sancta abbia rilevanza ecumenica, essendo stato votato prima della sessione XIV, sarebbe necessaria l'approvazione del papa uscito dal concilio, ossia Martino V. Secondo la ricostruzione dell'oratoriano Alfred-Henri-Marie Baudrillart (1859-1942), poi cardinale, questa approvazione non si verificò. Vediamo la sua argomentazione. Il testo della bolla papale Inter cunctas ha indotto molti a pensare che l'approvazione di Martino V si estendesse a tutte le sessioni del concilio, incluse dunque la IV e la V (e dunque anche al decreto in questione). Ma il papa, nella bolla, adoperò volutamente una formula vaga, approvando quel che il concilio aveva deciso in favorem fidei et ad salutem animarum. Questa espressione permetteva di far credere ai padri presenti a Costanza favorevoli al conciliarismo che tutto quanto era stato deciso nelle varie sessioni era stato approvato dal papa. In questo modo, papa Martino riuscì ad evitare di creare tumulti e nuove divisioni in quel concilio che era stato convocato per riportare unione nella Chiesa, dopo quarant'anni di scismi. Ma questa formula poteva essere intesa nel senso che in tale approvazione papale non erano incluse quelle decisioni che risultavano tutt'altro che in favore della fede e della salvezza delle anime, come appunto il decreto Hæc sancta.

La ricercata ambiguità del linguaggio della Inter cunctas dev'essere compresa nel contesto: un'opposizione del papa al decreto avrebbe immediatamente riaperto uno scisma, che si era appena risanato, ma nel contempo un'approvazione “totale” del concilio era impossibile, perché avrebbe incluso l'errore del conciliarismo. Simile escamotage venne utilizzato nella “seconda approvazione” del concilio da parte di Martino V, durante la XLV sessione. Egli utilizzò l'avverbio conciliariter, affermando di approvare quanto i padri avevano deciso conciliariter. Ma, quanto deciso durante le prime sessioni, tra cui la IV e V, non fu approvato conciliarmente. Il decreto venne infatti approvato assenti diversi cardinali, senza suffragio e con il voto di persone che non godevano di tale diritto. Fu infatti una deliberazione delle nazioni (nationaliter) – ossia raggruppamenti di vescovi e periti raggruppati appunto in base alla provenienza –, fatta al di fuori dell'assemblea vera e propria (conciliariter).

Dunque, la dubbia legittimità delle prime sessioni, l'effettiva mancanza di conciliarità durante l'approvazione della Hæc sancta, e il contenuto tutt'altro che in favore della fede permettono di affermare che il decreto non ricevette l'autorizzazione del papa. Quello che avverrà in seguito, come avremo modo di vedere, confermerà che né Martino V né i suoi successori intesero mai recepire la dottrina della superiorità del concilio sul papa.



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