Il Beato Angelico, quando l’arte diventa preghiera
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Fra Giovanni da Fiesole, meglio noto come il Beato Angelico, riuscì a fondere contemplazione e pittura, lasciandoci opere immortali che trasmettono in semplicità la bellezza della fede. Un modello che indica agli artisti, di cui è patrono, la loro grande responsabilità.
Una lastra di marmo e nulla più: questa è la tomba di fra Giovanni da Fiesole, meglio conosciuto con il nome di Beato Angelico, del quale oggi ricorre la memoria liturgica. Semplice, quasi anonima in quel suo bianco marmoreo, la tomba - custodita nella chiesa romana di Santa Maria sopra Minerva - sembra non appartenere a uno degli artisti più importanti del ‘400. Sulla lastra funeraria è ritratto un corpo con le due mani giunte. E proprio quelle mani hanno stretto, nel lontano passato, pennelli e colori per dipingere opere immortali, che trasmettono il messaggio universale del cristianesimo e della Chiesa.
Nel Beato Angelico, il Vangelo si è fatto immagine. Vengono in mente le parole della poesia Trittico Romano di san Giovanni Paolo II. In quell’occasione il pontefice polacco, riferendosi ai colori di Michelangelo nella Cappella Sistina, scriveva: «La visione aspetta l’immagine». Come nell’artista rinascimentale autore del Giudizio Universale, anche nel Beato Angelico ritroviamo l’immagine della visione. Sono opere d’arte dense di misticismo: il frate domenicano aveva nel cuore e nella mente «le cose di Dio». E grazie a questa conoscenza per opera dello Spirito Santo, grazie alla sua preghiera, riusciva a dare volto - immagine, appunto - alla Vergine, a Cristo, ai santi. È da notare un colore predominante nelle opere del Beato Angelico: l’oro. È l’oro del Paradiso. Lo stesso Michelangelo dirà di lui: «Quest’huomo l’ha veduto il Paradiso».
Contemplazione e pittura si fondono, in lui, per creare opere che nella loro semplice e raffinata intelligibilità riescono a fornire, al fedele di ogni tempo, scene tratte dal Vangelo: è questa la pedagogia dell’arte sacra, che aiuta il popolo di Dio ad accostarsi meglio al mistero dell’Incarnazione, al mistero di Dio. Non a caso, san Paolo VI, altro pontefice “amico degli artisti”, indicava la via della bellezza come una possibile strada per arrivare alla conoscenza di Dio: «L’arte rende visibile l’invisibile», disse al suo amico filosofo Jean Guitton (Dialoghi con Paolo VI, Rusconi, Milano, 1986).
Per comprendere quanto l’arte sia preziosa per il cammino di fede di ognuno, è importante focalizzare l’attenzione su alcune meditazioni che l’allora arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyła, tenne nell’aprile del 1962, in occasione degli esercizi spirituali per gli artisti nella Chiesa di Santa Croce, a Cracovia. Il Vangelo e l’arte, questo il titolo che era stato dato agli esercizi spirituali. Ma prima di inoltrarci nel rapporto tra fede e bellezza, è necessario domandarsi: cos’è la bellezza? Wojtyła risponde: «La bellezza rivela all’uomo il bene in un modo peculiare. Quando l’uomo incontra la bellezza, allora questa bellezza gli indica un qualche bene e fa sì che questo bene diventi, per l’uomo, attraente». Ogni spettatore dell’arte pittorica del Beato Angelico - ma in fondo, di tutta l’arte sacra che riesce a esprimere bellezza - si trova di fronte a ciò: il bene, un bene del Cielo appunto. È questo che il frate domenicano «indica» ai fruitori delle sue opere. Lo indica - e ancor meglio, lo condivide (la pittura diviene così atto d’amore) - perché egli stesso l'ha provato, l’ha conosciuto nel suo intimo come uomo e come religioso.
È necessario utilizzare il termine uomo in quanto, come sottolinea Wojtyła, «il Dio del Vangelo è necessario all’artista non solo come fonte d’ispirazioni - creative ed artistiche. Il Dio del Vangelo è molto più necessario all’artista in quanto uomo»: Dio parla all’uomo della bellezza del Paradiso, di ciò che è buono e bello; l’uomo-artista percepisce questa bellezza e grazie alle sue opere la trasmette al pubblico, la condivide, cerca di far vedere qui sulla terra il misterioso “arcobaleno” dell’amore di Dio per ogni uomo, che è allo stesso tempo immagine di Dio. È la forza dell’arte di rivelare all’uomo sé stesso, di rivelare all’uomo Dio. È in questo contesto che si inserisce, dunque, la capacità dell’arte di divenire strumento di evangelizzazione.
Proprio in merito a questa interessante tematica, san Paolo VI ci ha lasciato illuminanti parole, che è bene rileggere perché testimoniano l’importante responsabilità dell’artista: «Ritengo - diceva papa Montini - che tra prete e artista esista un’affinità; di più, una meravigliosa possibilità di intesa. Il nostro ministero comune ci impone di rendere accessibile, comprensibile, cioè emozionale, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’inesprimibile, di Dio. L’artista rende accessibile il mondo spirituale ma ne conserva il carattere inesprimibile, l’alone di mistero». (Jean Guitton, Dialoghi con Paolo VI, Rusconi, 1986).
Un aspetto da sottolineare: san Paolo VI fa riferimento a un «ministero comune». E Benedetto XVI, in un messaggio in occasione della XVII seduta pubblica delle Pontificie Accademie (2012), giunge ad affermare che l’artista «può partecipare, con il proprio specifico e originale contributo, alla stessa vocazione e missione della Chiesa, in particolare quando, nelle diverse espressioni dell’arte, voglia o sia chiamato a realizzare opere d’arte direttamente collegate all’esperienza di fede e al culto, all’azione liturgica della Chiesa».
Per questi motivi, guardare al Beato Angelico «è guardare a un modello di vita in cui l’arte si rivela come un cammino che può portare alla perfezione cristiana. Egli rese vero nella propria vita il legame organico e costitutivo che c’era tra il cristianesimo e la cultura, fra l’uomo e il Vangelo. In lui la fede è diventata cultura e la cultura è diventata fede vissuta. In lui l’arte diventa preghiera». Con queste parole, san Giovanni Paolo II, il 18 febbraio 1984, proclamava il Beato Angelico patrono degli artisti.