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UNA CARNE SOLA

Elisabetta, la beata che convertì il marito adultero

Oggi ricorre il dies natalis della mistica e beata Elisabetta Canori Mora, la cui santità fiorì innanzitutto nel sacramento del Matrimonio e nell’amore al marito: gli perdonò 27 anni di tradimenti fino a dare tutto per la salvezza eterna del coniuge e delle figlie. Troverà la forza nello Sposo celeste, Gesù Cristo, che le concesse innumerevoli grazie arrivando al dono immenso delle nozze mistiche.

Ecclesia 05_02_2019

«Propongo di non desiderare niente che sia di mio profitto, ma di compiere in ogni istante della mia vita la santa volontà di Dio». Oggi ricorre il giorno di nascita al cielo della mistica e beata Elisabetta Canori Mora (21 novembre 1774 - 5 febbraio 1825) e certamente queste sue parole racchiudono, come per ogni anima prediletta, il segreto della sua santità, che si compì innanzitutto nel sacramento del Matrimonio, da lei amato, custodito e onorato in sommo grado a dispetto dei tradimenti e di tutte le tribolazioni che dovette patire a causa del marito. Elisabetta - beatificata da Giovanni Paolo II il 24 aprile 1994 insieme a un’altra mamma e sposa straordinaria, sebbene con una storia diversa, come Gianna Beretta Molla (oggi santa) - tenne cioè al di sopra di ogni sua possibile inclinazione contraria le parole di Dio sul sacramento originario («… e i due saranno una carne sola») e, sostenuta dalla Grazia, visse una vita ricca di insegnamenti attualissimi per la Chiesa e il mondo intero.

Era nata a Roma in una famiglia benestante e devota, con dei genitori molto attenti all’educazione dei figli (ne ebbero 12, sei dei quali morti in tenera età) e costretti negli anni a far fronte a improvvise difficoltà economiche per i cattivi raccolti e altre disavventure. Elisabetta crebbe salda nella fede, facendo voto di carità a 12 anni su ispirazione del Signore, ma in seguito attraversò un periodo in cui cadde «in preda alla vanità del mondo» e non comprese la malizia del peccato senza comunque perdere l’aiuto invisibile di Dio, come lei stessa racconterà nel suo diario, La mia vita nel cuore della Trinità, scritto in obbedienza al confessore e miniera di consigli spirituali, riferimenti alle vicende storiche del tempo e profezie sulla Chiesa.

Il 10 gennaio 1796, all’età di 21 anni, sposò Cristoforo Mora, un giovane e colto avvocato, che all’inizio sembrava innamoratissimo della moglie e invaghito della sua bellezza. L’illusione durò poco perché dopo circa un anno di matrimonio il marito si lasciò sedurre da un’altra donna, che divenne la sua amante e con il tempo lo portò a dilapidare i suoi beni, riducendo la famiglia a vivere di stenti. Elisabetta, nei primi cinque anni di matrimonio, aveva intanto partorito quattro bambine, le prime due accompagnate in Paradiso dopo pochi giorni. Cercava dolcemente di ammonire il marito sul pericolo dell’adulterio per la sua anima e pregava per la donna che lo aveva ammaliato, chiedendone la salvezza eterna. La sua carità e la sua forza risiedevano nell’accostarsi, ogni otto giorni, ai sacramenti della Confessione e della Comunione, nonché nella preghiera e contemplazione dei misteri del Rosario a cui andò dedicando in tutto almeno sei ore al giorno.

Presto sgorgò in lei il desiderio di nutrirsi più frequentemente dell’Eucaristia, che arriverà a ricevere tre volte a settimana e poi quotidianamente. Il 7 settembre 1803 ebbe il conforto della prima visione: le apparve, maestosa, Maria Santissima, che «teneva nelle sue mani bella e risplendente colomba», sotto le cui ali «vi erano impressi i chiodi che crocifissero il mio Signore, e questi li vedevo di colore sanguigno, ma risplendenti al pari del sole. Questa nobilissima colomba tramandava dardi di fuoco». La freccia dell’amore divino, malgrado un tentativo diabolico di distoglierla, colpì «il mio cuore intimamente», donandole un crescendo di grazie che aiutarono Elisabetta ad affrontare ogni difficoltà.

La situazione finanziaria divenne talmente grave che nel 1804 fu costretta ad andare a vivere nella casa dei suoceri, con cognate e zie: le fu data una camera comunicante con altre tre, con grande pena per la mancanza di riservatezza e l’impossibilità di raccogliersi nell’orazione come desiderava, problema - quest’ultimo - che risolse ottenendo dalla suocera di poter pregare «in un piccolo ripiano di scala». Il Signore le fece poi intendere che vi erano due ragioni per le quali aveva permesso questa sua destinazione in una camera di passaggio, «primo per esercizio di pazienza, secondo per dare buon esempio a questa famiglia». Dopo il primo evento mistico ebbe il conforto di innumerevoli altre visioni di Maria, san Michele Arcangelo, san Giovanni Battista e altri santi, nonché del suo angelo custode. Sempre nel 1804 fu rapita in spirito e condotta al Cenacolo nel momento in cui Gesù donava il suo Corpo agli Apostoli: sopraffatta da sacro timore, fu lo stesso Gesù che «mi fece sedere presso di Lui. Divenni in quel momento l’oggetto delle più alte ammirazioni di questi nobili personaggi, che sedevano a quella lauta mensa. La loro ammirazione mi accresceva l’annientamento, l’umiliazione». Il Signore la comunicò quindi con le Sue mani.

Seguì il trasporto in spirito, per tre volte nello stesso anno, al Getsemani, dove vide Gesù agonizzante: descrisse così bene i luoghi dell’Orto degli Ulivi e del Cenacolo a un francescano vissuto molti anni a Gerusalemme che il religioso, ignaro dei doni celesti ricevuti da Elisabetta, non poté che confermare l’esattezza di quelle descrizioni. Alla condivisione delle sofferenze nel Getsemani, offerte in unione al sacrificio redentivo di Cristo, si aggiungerà più tardi anche la crocifissione mistica. Intanto Gesù le aveva rivelato di quale amore la amasse: «Ti amo con amore di predilezione, sono per favorirti non meno della mia Teresa, o della mia Geltrude», intendendo due sante eccelse come Teresa d’Avila e Geltrude la Grande. Le rivelò anche che per la sua purezza «sarai annoverata tra le vergini».

Elisabetta, che divenne terziaria trinitaria, veniva adornata di tante grazie mentre rinnovava di volta in volta il voto di castità e seguiva, in obbedienza, la guida dei diversi confessori che ebbe negli anni della sua crescita spirituale, una crescita che si accompagnava alla consapevolezza del proprio nulla di fronte alla Maestà divina. Una volta, un suo direttore spirituale prese però a consigliarla di separarsi dal marito (che in un’occasione era arrivato al punto di volerla uccidere) dicendole di chiedere a Dio quale fosse la Sua volontà in merito. «Il Signore», scriverà Elisabetta, «mi fece conoscere che non dovevo abbandonare queste tre anime, cioè le due figlie e il consorte, mentre per mezzo mio le voleva salvare». Comunicò dunque la volontà divina al confessore e con ardenti preghiere chiedeva a Dio la salvezza per il marito e le figlie. Parlando proprio delle figlie, un giorno supplicò così il Signore: «Siano tutte vostre, Gesù mio». E Lui: «Queste due anime sono già mie. Lo sono, perché tu vuoi che lo siano!».

Mentre il marito continuava a tradirla, lo farà per 27 lunghi anni, Elisabetta veniva sostenuta e adornata di gloria dallo Sposo celeste, Gesù, che la fece condurre in un luogo elevatissimo del Paradiso, custodito dai santi Giovanni Battista ed Evangelista, per le nozze mistiche. E poi ancora, il 23 ottobre 1816, questo mistero sponsale tra il Creatore e la sua creatura divenne ancora più profondo, poiché Gesù le disse: «Con sacro matrimonio intimamente a Me ti unirò. Questo favore che a te voglio compartire non è meno grande di quello che mi compiacqui di fare alla mia serva Caterina da Siena».

Ebbe una pietà particolare verso le anime del Purgatorio, luogo dove fu trasportata vedendo la sua divisione in tre parti, in base alle pene patite e quindi alla vicinanza al Paradiso. Con i suoi suffragi liberò l’anima di Pio VI (1717-1799), che nel 1814 le apparve per grazia divina chiedendole preghiere perché era ancora in Purgatorio «per diverse mancanze riguardanti il pontificato», ed enorme fu il numero di anime purganti che le fu concesso di liberare nell’ottava dei defunti del 1824, pochi mesi prima di morire. Intanto la Chiesa viveva una delle fasi più drammatiche della sua storia, in mezzo a rivoluzioni e moti risorgimentali, ed Elisabetta, che in quel periodo riuscì a far pervenire i suoi consigli (sempre dettati dal cielo) a Pio VII, ebbe visioni tremende: «… tutto ad un tratto mi fu mostrato il mondo; questo lo vedevo tutto in rivolta, senza ordine, senza giustizia, i sette vizi capitali si portavano in trionfo». In mezzo a tanta iniquità persisteva però «il piccolo gregge di Gesù Cristo, che fedele e costante al suo Dio, in mezzo a tanta barbarie seppe conservare pura e intatta la divina legge del santo Evangelo, ed i suoi dogmi sacrosanti». A proposito di dogmi, l’8 dicembre 1814, cioè 40 anni prima della sua solenne definizione, Elisabetta ebbe una visione in cui le fu rivelato tutto lo splendore dell’Immacolata Concezione.

Una delle sue profezie l’aveva fatta al marito che pure la scherniva, non comprendendo la fede incrollabile della moglie, la quale un giorno gli disse: «Ridete, ridete, voi direte la Messa e confesserete». Elisabetta fu chiamata per sempre dallo Sposo divino il 5 febbraio 1825, a poco più di 50 anni. Cristoforo, lo sposo terreno, alla vista del cadavere della consorte (le spoglie sono custodite nella chiesa romana di San Carlo alle Quattro Fontane) sussultò. Pianse, iniziò a pregare, a pregare sempre più intensamente, confessò pubblicamente le sue colpe fino a dire che «una simile madre non si trova al mondo, e io sono indegno di esserle consorte». Si comportò da vedovo esemplare, entrò anche lui come terziario nell’Ordine della Santissima Trinità, poi si fece francescano conventuale e, nel 1834, sacerdote. Tra orazioni e penitenze durissime, eserciterà devotamente il ministero sacerdotale per 11 anni, fino all’8 settembre, festa della Natività di Maria, quando morirà in fama di santità. La profezia della moglie, la beata Elisabetta Canori Mora, era compiuta.