Droga, "no" della Consulta. Ma il pericolo rimane
Comunicata dal presidente della Corte costituzionale l’inammissibilità del referendum sulla droga. Vari i motivi. Fuorviante parlare di “referendum cannabis": il quesito riguardava tutte le droghe, coca compresa. Era in violazione degli obblighi internazionali assunti dall’Italia e incompleto. «Singolare che il Governo abbia rivendicato la scelta di far avanzare il quesito referendario», commenta il giudice Mantovano alla Bussola. E chiama a una battaglia politico-culturale, «perché il pericolo non è scampato».
Titolo e parole fuorvianti, violazione degli obblighi internazionali e “inidoneità allo scopo”, espressione che in sostanza sta a indicare il pasticcio giuridico che avrebbe creato un’eventuale vittoria dei Sì al cosiddetto “Referendum cannabis legale”. Sono queste le motivazioni che il presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, nella stessa giornata in cui sono stati ammessi 5 dei 6 quesiti sulla giustizia, ha fornito nella conferenza stampa di ieri per spiegare l’inammissibilità del referendum sulla droga. Lungi dal classico «pelo nell’uovo» di cui ha parlato polemicamente il presidente di +Europa (Riccardo Magi), il quesito referendario dei radicali è stato dunque fatto a pezzi dalla Consulta, che certo conservatrice non è. Ma, Costituzione e giurisprudenza alla mano, non poteva fare altrimenti.
La prima precisazione di Amato, che ha richiamato sul punto la bocciatura dell'omicidio del consenziente avvenuta il giorno precedente, è stata proprio sul titolo del referendum, che è, «io dico, sulle sostanze stupefacenti» e non sulla sola cannabis. Una precisazione che molti redattori di giornali e agenzie hanno tranquillamente ignorato, titolando sul no al «referendum cannabis» in accordo alla propaganda parziale e ingannevole, fin dal proprio sito Internet, del comitato promotore. Il quesito referendario, in realtà, mirava a legalizzare la coltivazione di tutte le sostanze stupefacenti, comprese - per intenderci - le piante da coca e il papavero da oppio. «Già questo è sufficiente a farci violare obblighi internazionali plurimi che abbiamo e che sono un limite indiscutibile del referendum», ha detto Amato.
Tra questi obblighi internazionali ci sono la Convenzione di New York del 1961 e quelle di Vienna del 1971 e 1988, tutte ratificate dall’Italia: in esse la cannabis è ovviamente inclusa tra le droghe e vi si vieta espressamente la coltivazione della canapa indiana diretta a produrre stupefacenti.
Come spiega il giudice Alfredo Mantovano, raggiunto telefonicamente dalla Bussola, la comunicazione di Amato in conferenza stampa sull’inammissibilità del quesito sulla droga «è aderente sia alla ratio del testo dell’art. 75 della Costituzione sia alla giurisprudenza della Consulta sulla droga. Questo è un punto su cui ha insistito il Comitato per il No. E cioè che il contrasto verso le attività di coltivazione, traffico, eccetera, di sostanze stupefacenti è anche in attuazione di trattati internazionali come le Convenzioni di New York e Vienna che l’Italia ha recepito nel nostro ordinamento e, in quanto temi costituzionalmente vincolati, non possono essere oggetto di abrogazione referendaria. Così hanno chiarito diverse sentenze della Consulta negli ultimi quarant’anni», come la 30/1981, la 28/1993 e la 27/1997.
In più, ieri, la Consulta, come riferito dal presidente Amato, ha dovuto constatare «l’inidoneità rispetto allo scopo perseguito» dal referendum sulla droga. Questa inidoneità si spiega con il fatto che «il quesito non tocca altre disposizioni che rimangono in piedi e che continuano a prevedere la rilevanza penale» delle «stesse condotte» che si vorrebbero liberalizzare. In parole povere il quesito - che si suddivide in tre sottoquesiti - proposto dai radicali, pretendendo di depenalizzare tout court la coltivazione di qualsiasi sostanza stupefacente, chiedeva di abrogare la parola «coltiva» dal comma 1 dell’articolo 73 del Testo unico sulla droga (Dpr 309/1990). Ma i promotori - come ha ben evidenziato la dettagliata memoria inoltrata alla Consulta martedì 8 febbraio dal Comitato per il No - hanno mancato di chiedere la contemporanea abrogazione degli articoli 26 e 28 dello stesso Testo unico dove è sempre previsto sia il divieto di coltivare coca e papavero da oppio (compresi nella tabella I) sia la canapa (tabella II), fatti salvi gli usi autorizzati di quest’ultima.
L’esito di un’eventuale vittoria dei “sì” al referendum sarebbe stato quindi paradossale, eliminando da un articolo un divieto che sarebbe rimasto in vigore in altri articoli della medesima legge. Come spiega ancora Mantovano, «questo avrebbe prodotto operativamente non pochi problemi a un giudice chiamato a decidere. Ci sarebbero state incertezze notevoli sul piano del diritto, ancor più di quelle che ci sono ordinariamente».
Tra l’altro, come faceva notare la già citata memoria del Comitato per il No, scritta con il supporto del Centro Studi Livatino, lo stesso problema di inidoneità allo scopo riguarda anche il secondo sottoquesito radicale che puntava a eliminare - abrogando una parte del comma 4 dell’art. 73 del Testo unico - la pena della reclusione «da due a sei anni» per ogni attività che avesse a che fare con la cannabis, dunque anche per la lavorazione e lo spaccio di ingenti quantità. Ma la pena detentiva, «da sei mesi a quattro anni», sarebbe rimasta paradossalmente per le condotte di lieve entità di cui al successivo comma 5 dello stesso articolo. Anche qui sarebbe mancata quindi la completezza e chiarezza indispensabili per un quesito referendario da sottoporre al voto dei cittadini.
L’evidente inammissibilità del referendum sulla droga, un cui successo sarebbe stato devastante per la salute di innumerevoli italiani, stride oggi ancor di più con il comportamento dell’esecutivo guidato da Mario Draghi. «È singolare - dice Mantovano alla Bussola - che il Governo abbia scelto di non costituirsi contro l’ammissibilità del referendum perché la prassi è quella di difendere la normativa esistente, a meno che non sia materia su cui il Governo ha l’obbligo della neutralità: non era questo il caso. Anzi il presidente del Consiglio, nella conferenza stampa del 22 dicembre scorso, ha addirittura rivendicato la scelta di far procedere i quesiti referendari».
Un motivo in più, secondo il vicepresidente del Centro Studi Livatino, per mantenere alta la guardia. «Sarebbe importante adesso, per chi non condivideva il quesito referendario, tener presente che il problema della droga rimane. Il Decreto Renzi del 2014, che ha ripristinato la distinzione ascientifica tra droghe “pesanti” e “leggere”, ha creato e continua a creare problemi notevoli all’attività di contrasto allo spaccio. In questo quadro le dipendenze sono aumentate, come mostrano le relazioni annuali della Presidenza del Consiglio. La situazione si sarebbe aggravata con la vittoria di questo referendum. Ma il pericolo non è scampato e bisogna affrontarlo con una battaglia più corale, sul piano sociale, culturale e politico».