Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
VERGOGNE ITALICHE

Democrazia, ma chi va in Parlamento lo decide il "capo"

Chi si candida vuole la certezza di essere eletto, altrimenti preferisce non fare brutte figure. L'ultimo caso della Morani mostra che democrazia vuol dire potere al popolo, ma il popolo in questo caso non ha potere. Non ci sono le preferenze, quindi basta essere nelle grazie del segretario di partito e il gioco è fatto. Ma il segretario è un padre padrone non eletto dal popolo ma votato da una nomenklatura di partito sempre più autoreferenziale. Pd e Letta, Cinque stelle e Conte, Terzo Polo e Calenda. Non c'è differenza a Sinistra. 

Editoriali 18_08_2022

Il dibattito surreale sul rischio fascismo e la difesa della Costituzione appare, ogni giorno che passa, sempre più offensivo nei confronti dell’intelligenza degli italiani. L’appello lanciato dalla sinistra contro eventuali derive autoritarie legate alla riforma presidenzialista propugnata dal centrodestra, oltre che fuori contesto, appare davvero imbarazzante perché cozza in maniera stridente con i metodi che il Pd e i suoi alleati hanno adottato nella composizione delle liste.

Il clima rissoso che si è creato dalle parti del Nazareno rappresenta la sconfessione più limpida e cristallina della linea di Enrico Letta, che era partito per allargare la coalizione e ora si trova in un vicolo cieco. Sta ricevendo una valanga di rifiuti alle candidature in collegi in bilico e poche adesioni acritiche solo da parte dei suoi fedelissimi e dei leader di corrente, che si sono blindati in collegi sicuri.

La passione politica è la maschera di un opportunismo che taglia tutti i partiti fin qui considerati alternativi al centrodestra. Lo schieramento di Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e i cespugli centristi deve ancora definire la composizione delle liste. Si vedrà se anche da quelle parti voleranno i coltelli e ci saranno tensioni e spaccature. Per ora le registriamo solo a sinistra, dove si cambia partito o si rifiutano candidature incerte. Praticamente chi si candida vuole la certezza di essere eletto, altrimenti preferisce non fare brutte figure; pretende la garanzia di uno stipendio sicuro da 15.000 euro al mese senza misurarsi più di tanto con il consenso popolare.

Democrazia vuol dire potere al popolo, ma il popolo in questo caso non ha potere. Non ci sono le preferenze, quindi basta essere nelle grazie del segretario di partito, che ti inserisce in lista in buona posizione o ti assegna un collegio uninominale blindato e il gioco è fatto. Ma chi è il segretario? Un padre padrone non eletto dal popolo ma votato da una nomenklatura di partito sempre più autoreferenziale e sempre meno rappresentativa dell’opinione pubblica. Quindi il paradosso è che un soggetto privo di legittimazione popolare decide chi deve essere votato dai cittadini. Il potenziale candidato non deve dunque coltivare il rapporto con l’elettorato, ma quello con il segretario. La prossimità al segretario del suo partito gli garantisce il posto sicuro; la stima presso i suoi elettori potrebbe non essere necessaria.

In casa Pd i mugugni sono tanti. L’ultimo, in ordine di tempo, quello di Alessia Morani, che rinuncia al collegio nelle Marche, dove rischierebbe di non essere eletta, e motiva il rifiuto con “la deriva a sinistra” del suo partito. Ma se ne accorge solo ora perché potrebbe restare fuori dal Parlamento?

L’antipasto di quanto succederà nel cosiddetto Terzo polo si è avuto con il passaggio dei ministri Mariastella Gelmini e Mara Carfagna da Forza Italia ad Azione. Se fossero rimaste in Forza Italia, essendo invise a Berlusconi e alla sua consulente di fiducia Licia Ronzulli, avrebbero rischiato di non essere elette. Meglio tentare la carta Calenda, dove cercheranno di ottenere un seggio sicuro. Altrimenti - c’è da scommettere - una “crisi di coscienza” le porterà a rifiutare la candidatura anche lì. E Luigi Di Maio? Anche lui, per sfuggire alla regola del terzo mandato, che gli avrebbe impedito di ricandidarsi con i grillini, ha promosso la scissione con altri sessanta parlamentari, nessuno dei quali ha speranze di tornare in Parlamento, salvo i fedelissimi Laura Castelli e Vincenzo Spadafora. Giggino otterrà dal Pd un collegio blindato in Campania, con relativi malumori della base dem, che non lo digerisce per i suoi innumerevoli cambi di opinione e di casacca. E c’è da scommettere che, in caso di insuccesso, l’attuale Ministro degli esteri escogiterà l’ennesima operazione trasformistica per riciclarsi e rimanere a galla, anche buttando a mare i suoi ormai pochissimi accoliti.

Nei 5 Stelle la realtà supera la fantasia: fratelli, cognati, fidanzati e mariti di parlamentari o ministri uscenti come Elisabetta Trenta e Stefano Buffagni vengono inseriti da Giuseppe Conte in un listino bloccato e avallato da opache votazioni on-line, le Parlamentarie. Peraltro lo stesso ex premier non è mai stato votato dal popolo, eppure ha fatto per due volte il premier e ora sceglie personalmente i futuri parlamentari grillini.

Ce n’è abbastanza per concludere che le operazioni di composizione delle liste non hanno nulla di democratico. Chi viene chiamato a farne parte o è certo del risultato o rinuncia. Alla faccia della passione politica e dello spirito di servizio al Paese. La partitocrazia, combattuta durante Tangentopoli, si sta riproponendo in una veste ancora più farsesca e illiberale. I cittadini possono solo sperare che le logiche perverse della selezione dei candidati producano liste presentabili, con candidati all’altezza delle sfide che attendono il Paese. Anziché preoccuparsi di ipotetiche riforme costituzionali contrarie alla volontà popolare, i partiti facciano in modo di combattere l’astensionismo, restituendo reale potere al popolo nella scelta dei suoi rappresentanti. Agitare lo spettro del presidenzialismo come argine contro l’avanzata del centrodestra è un’ipocrisia tutta italiana che rischia di trasformare la nostra democrazia in un malato terminale.