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REGNO UNITO E UE

Che fine fa la Brexit? Muro contro muro a Bruxelles

Il negoziato sulla Brexit continua. Nonostante sia stato sciolto il nodo della frontiera di terra fra Irlanda del Nord e Repubblica di Irlanda, restano tre grandi questioni su cui Ue e Regno Unito non riescono a trovare un punto di incontro: pesca (e acque territoriali), parità di condizione delle regole e sede dell'arbitrato. Per Johnson è meglio nessun accordo che un cattivo accordo. 

Esteri 15_12_2020
Dover, come le strade vengono preparate al cambio di regime commerciale

I negoziati sono noiosi per definizione, anche quando li si studia nei libri di storia. Tuttavia, i negoziati in corso fra Regno Unito e Unione Europea, per definire i termini della Brexit, stanno riservando molte sorprese, tanti colpi di scena. Quel che appariva l’ostacolo più difficile da passare (l’Irlanda del Nord) è stato superato. Mentre questioni che, fino al mese scorso, apparivano meno urgenti, come la pesca, la parità di condizioni sulle regole e la decisione sulla sede in cui risolvere i contenziosi, sono diventati i nuovi ostacoli “insormontabili”. La situazione, domenica, ultimo giorno di negoziati secondo il calendario, appariva disperata: uscita del Regno Unito senza alcun accordo. Ma in serata è arrivato il salvagente: le trattative continuano. Le due parti non si sono date un termine nei prossimi giorni, ma il 31 dicembre è la fine tassativa. Il 1 gennaio, il Regno Unito sarà anche fuori dal mercato unico, oltre che dall’Ue.

La questione risolta, quella dell’Irlanda del Nord, non sarà messa a repentaglio neppure da un eventuale fallimento dei prossimi negoziati. Ormai l’accordo è stato messo nero su bianco, raggiunto da Michael Gove (“ministro della Brexit”) con il commissario europeo Marosh Shefchovic. Il Regno Unito intendeva scongiurare un blocco del commercio fra Irlanda del Nord e Gran Bretagna, cosa che avrebbe comportato una separazione anche politica del Regno. L’Ue era stata volutamente vaga e a Londra era rimasto l’incubo di un embargo sui prodotti alimentari e medicinali imposto ai nord-irlandesi, in caso di mancato accordo con Bruxelles. Per questo, con la nuova Legge sul libero scambio interno, tuttora in fase di votazione, il governo britannico si era riservato il diritto di reintrodurre una dogana fra l’Irlanda del Nord e la Repubblica di Irlanda, in caso di fallimento del negoziato con l’Ue. La settimana scorsa questo punto è stato eliminato dalla nuova legge britannica, in cambio dell’assicurazione da parte dell’Ue che i controlli sui prodotti alimentari e farmaceutici saranno ridotti al minimo. L’accordo prevede anche che il Regno Unito stili una lista di merci non a rischio di essere contrabbandate nell’Ue attraverso il confine di terra irlandese. In questo modo, lo scontro è stato disinnescato. E anche la pace in Irlanda è salva.

Questioni apparentemente più facili sono invece diventate i veri ostacoli di questi giorni. La prima è sulla pesca. I francesi sono finora abituati a pescare anche in acque britanniche, specialmente nelle Isole del Canale, molto più vicine alla costa normanna che a quella inglese. Michel Barnier, capo negoziatore europeo, chiede libero accesso per le flotte di pescherecci dell’Ue in acque britanniche. Il governo Johnson vuole che le risorse ittiche restino nel mercato britannico, prima di tutto perché vuol mantenere per principio l’inviolabilità delle sue acque territoriali. Le risorse ittiche britanniche fruttano circa 700 milioni di euro all’anno. L’Ue minaccia di imporre tariffe sul pesce inglese, in caso di mancato accordo, sarebbe un colpo duro per i pescatori inglesi, considerando che i tre quarti delle esportazioni sono verso Paesi Ue. Difficile anche raggiungere un compromesso sulla durata di un eventuale regime di transizione, l’Ue punta a mantenere lo status quo per almeno 10 anni, Londra tratta per accorciare questo periodo il più possibile.

Poi c’è la questione delle regole comuni. Se la pesca è il settore in cui Regno Unito da una parte e Francia dall’altra sono meno disposte a scendere a compromessi, la ricerca di una parità di condizioni delle regole, è il tema più caro alla Germania. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, lo ha ribadito anche domenica: è “la singola questione più importante”. La Brexit è stata votata, però, proprio per uscire dalle regole del mercato comune europeo. Quindi anche in questo campo è difficile che Londra scenda a compromessi. L’Ue insiste perché, anche dopo la sua separazione, il Regno Unito si conformi agli standard comunitari sull’ambiente, il lavoro e l’aiuto di Stato, perché ritiene che un mercato altamente deregolamentato, o viceversa più aiuti di Stato, costituiscano atti di concorrenza “sleale”.

Al tema delle regole comuni, si lega anche quello su dove dirimere le dispute. L’Unione Europea ritiene che ogni controversia debba essere risolta in sede della Corte di Giustizia europea. Ma, anche qui, la Brexit è stata votata anche per evitare che le leggi britanniche potessero essere giudicate dai giudici del Lussemburgo e Johnson sarà particolarmente intransigente su questo punto.

Difficile prevedere l’esito di questo complesso negoziato per il divorzio del secolo. Una cosa, però, appare chiara. Boris Johnson mette in pratica il principio conservatore del “meglio nessun accordo che un cattivo accordo”. In sintesi: ragione da premier di un Paese indipendente. Era lo stesso principio che, in teoria, avrebbe dovuto seguire anche Theresa May, la precedente premier conservatrice, ma in pratica aveva accettato un accordo con molti sacrifici che il Parlamento ha più volte bocciato. L’attuale premier, eletto a gran maggioranza con il preciso scopo di traghettare il Regno Unito fuori dall’Ue, sa di avere il fiato addosso di milioni di elettori, che manifestano il loro scontento anche solo per il fatto che esista ancora una trattativa con Bruxelles. Obiettivo dell'Ue, invece, appare con tutta evidenza quello di mantenere il più possibile il Regno Unito entro le stesse regole comuni europee. Condannandolo così ad una posizione subordinata: accettare leggi decise da altri. In questo modo intende scoraggiare l'uscita di altri Paesi che potrebbero prendere esempio dalla Brexit. Il messaggio è chiaro: anche se riesci ad andartene, dovrai comunque obbedire alle nostre regole, senza più avere voce in capitolo per cambiarle.

Da prendere con le molle, invece, le previsioni apocalittiche sullo scenario post-Brexit, in caso di fallimento delle trattative. Ancora in questi giorni, i quotidiani (italiani inclusi) sono pieni di articoli sulla prossima scarsità di cibo, medicinali e altri beni di prima necessità nelle città britanniche, come in tempo di guerra. Sono le stesse cose che venivano predette nel 2016 (dopo il referendum), nel 2019 (ultimo anno del Regno Unito nell’Ue) e che puntualmente sono state smentite dai fatti. Ma anche un’uscita senza accordo non implica un isolamento delle isole britanniche. In quel caso si applicherebbero le norme e le tariffe dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, le stesse che attualmente già regolano gli scambi del Regno Unito con gli Usa, i Paesi dell’America latina, i Paesi arabi del Golfo, la Russia, la Cina, l’Australia e la Nuova Zelanda.