Avvenire apre ufficialmente ai seminaristi gay
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Etero e omoaffettività «varianti diverse, ma naturali, della sessualità umana», dice la psicologa Chiara D'Urbano al quotidiano dei vescovi italiani. Una posizione che rovescia anche la dimensione sponsale della vocazione sacerdotale.
«Eteroaffettività e omoaffettività sono varianti diverse, ma naturali, della sessualità umana». È questo il cuore delle dichiarazioni della dott.ssa Chiara D'Urbano, psicologa e psicoterapeuta, consultore del Dicastero per il Clero e perito della Rota Romana, del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano e del Vicariato di Roma, per il quotidiano Avvenire (domenica 9 giugno, p. 20).
L'intervista di Luciano Moia rappresenta «il primo passo di un percorso di approfondimento che Avvenire porterà avanti sulle sue pagine», dopo il caso mediatico suscitato dalle “frociaggini” di papa Francesco. Il quotidiano dei Vescovi italiani scende dunque in campo per spingere verso l'apertura ufficiale (perché quella ufficiosa è realtà da un pezzo) di seminari e conventi a candidati gay, dopo che l'esternazione del Papa durante la 79ma Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana sembrava aver segnato uno stop definitivo. Moia tiene a precisare che, in verità, l'espressione del Papa sarebbe stata fraintesa, ed avrebbe aperto un dibattito «spesso portato avanti a sproposito, come se quelle parole avallassero un giudizio negativo contro l'omosessualità». Nel paese delle meraviglie, dove vive Moia, l'espressione “frociaggine” non avalla un giudizio negativo... Se l'avessimo usata noi, anziché il Papa, come minimo ci avrebbe accusato di pericolosa omofobia.
Torniamo al tema dell'intervista. La dott.ssa Chiara D'Urbano ci spiega dunque che l'omosessualità è uno dei due possibili orientamenti affettivi, passando così dal terribile binarismo di genere maschio-femmina, ad un nuovo binarismo omo-etero: «omosessualità e eterosessualità indicano la direzione del “voler bene”, piuttosto che la sua qualità». Due direzioni semplicemente differenti del “voler bene”, dunque.
«È fondamentale comprendere che nell'omoaffettività non c'è una vulnerabilità di fondo, magari legata ad un deficit strutturale o evolutivo (…). Affermare il contrario sarebbe antiscientifico e privo di consistenza». La D'Urbano, che offre il servizio di psicoterapia soprattutto a seminaristi, sacerdoti e religiosi, ed è impegnata nell'ambito della formazione proprio presso seminari e conventi, ha sostanzialmente liquidato l'ipotesi eziologica psicogenetica dell'omosessualità, sostenuta, con accenti differenti, da psicologi come Alfred Adler, Carl Gustav Jung, Wilhelm Reich, Jacques Lacan, Victor Frankl, Irving Bieber, Elizabeth Moberly, Paolo Ferliga e molti altri. Tutti, evidentemente, antiscientifici.
Eliminata l'ipotesi di fragilità della persona omosessuale, probabile esito di una problematica vissuta dalla persona soprattutto nella dinamica dell'attaccamento e dell'identificazione con le figure genitoriali, l'ammissione di candidati omo al sacerdozio chiaramente non rappresenta più alcun problema: «Le vere minacce alla vocazione – sentenza la D'Urbano – sono il potere malgestito, il ruolo quando diventa un'arma, la voglia di denaro, la sete di carriera. Queste sì che possono danneggiare se stessi, gli altri, la Chiesa, non l'orientamento sessuale (omosessuale)».
La D'Urbano mostra una grande abilità a saltare sul carro delle mode: oltre ad abbracciare zelante la posizione dell'omosessualità come orientamento naturale, che si è imposta nel mondo degli psicologi e nel mondo culturale molto scientificamente, ossia a suon di censure e minacce verso chi la pensa diversamente, ha pensato bene anche di proporsi come sponsor “scientifico” dell'ossessione di questo pontificato: il clericalismo. Nessun dubbio che avidità e ambizione siano una piaga da estirpare, ma in questo contesto si tratta di gettare fumo negli occhi per non venire al cuore della questione.
Da una che non è semplicemente psicologa e psicoterapeuta, ma che ricopre importanti ruoli all'interno della Chiesa cattolica, ci si aspetterebbe che centrasse l'argomento sulla base di una antropologia teologica fondata sulla Rivelazione cristiana, magari alla luce dell'insegnamento magisteriale di Giovanni Paolo II. Domandiamo: la differenziazione sessuale che marca la nostra corporeità in che relazione sta con lo sviluppo affettivo della persona? La nostra corporeità e la nostra dimensione psicologico-affettiva sono comunicanti o indipendenti? La nostra corporeità è portatrice di un significato, oppure è un orpello che non ha nulla da dire all'essere persona?
Quando la Chiesa ribadisce che le tendenze omosessuali sono oggettivamente disordinate non vuole dare un giudizio morale sulla persona (giudizio che si porta invece sugli atti sodomiti), ma esprime un giudizio di natura antropologica: quella tendenza va in senso oggettivamente contrario a quanto significato dalla corporeità. Quanto più essa è radicata, tanto più la persona sperimenterà una profonda scissione tra ciò che il proprio corpo dice e la direzione della propria tendenza affettiva.
Domande le cui risposte dipendono da un'altra domanda più fondamentale: quando Dio crea Tizio maschio e Tizia femmina, lo fa casualmente? Il nostro essere creati maschi o femmine ha ancora un senso, racchiude ancora una vocazione specifica, o si tratta di una determinazione che non ha alcun senso? Dio dunque crea ed opera senza senso, oppure persino controsenso, dal momento che creerebbe una persona in un corpo maschile, che esprime apertura all'alterità femminile (e viceversa), ma dandogli poi un orientamento affettivo opposto a quello espresso dalla sua corporeità?
La posizione cavalcata da Avvenire non mette sottosopra solamente l'antropologia cristiana, ma anche il senso sacramentale della vocazione sacerdotale. Il sacerdote vive, nel suo celibato, non una semplice continenza (da cui deriverebbe l'equazione tra preti omo e preti etero, purché siano “casti”), ma una sponsalità nei confronti della Chiesa. Il celibato sacerdotale non è una mutilazione, ma una sublimazione delle proprie risorse affettive, che vengono orientate (o almeno lo dovrebbero) integralmente verso la Chiesa-sposa, in ragione della propria unione sacramentale con Cristo, capo e sposo. Per questa ragione il sacerdozio è interdetto alle donne, il cui corpo non esprime questa sponsalità di Cristo, ma è invece aperta ad accogliere la sponsalità del Signore; e per questa ragione il sacerdozio non è accessibile a quanti hanno una radicata tendenza omosessuale: la loro affettività infatti non è oggettivamente orientata nella direzione impressa nel proprio corpo, che esprime una sponsalità maschile, che deve amare con tutta se stessa la polarità femminile della Chiesa.
Evidentemente né alla D'Urbano, né a Moia, né alla cricca di Avvenire sembrano interessare queste quisquilie, che dopotutto non sono altro che l'espressione della teologia, dell'antropologia, della sacramentaria, del senso dell'Incarnazione e della fondazione della Chiesa. Tutte realtà sacrificabili al cospetto del cambio di paradigma.
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