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11 settembre: 20 anni dopo, la resa morale dell'Occidente

Venti anni dopo l’11 settembre, si ricorda il giorno “che ha cambiato il mondo”, come molti commentatori scrivono. Ma si dovrebbe capire, semmai, come mai l’11 settembre non abbia affatto cambiato il mondo. Al Qaeda c'è ancora, è nato l'Isis, il jihadismo è ancora in espansione, persino i Talebani, sconfitti allora, sono tornati al potere. Che cosa è successo? Usa e alleati non hanno mai subito sconfitte militari. È la politica che ha deciso di smettere di combattere. E lo ha fatto spinta da tre vere potenze del pensiero contemporaneo: materialismo, relativismo e terzomondismo.

Cultura 11_09_2021 English Español
11 settembre

Venti anni dopo l’11 settembre, si ricorda il giorno “che ha cambiato il mondo”, come molti commentatori scrivono. Ma si dovrebbe capire, semmai, come mai l’11 settembre non abbia affatto cambiato il mondo. È stato ucciso Osama bin Laden (il 2 maggio 2011), mente dell’attacco dell’11 settembre, ma Al Qaeda è viva, sia come ideologia che come movimento armato. Ed è ancora guidata dal suo ideologo l’egiziano Ayman al Zawahiri. La galassia jihadista è in espansione, non in ritirata. Si sta espandendo soprattutto in Africa, raggiungendo anche regioni del continente nero che non erano ancora note per il terrorismo islamico Nel 2001 non esisteva ancora lo Stato Islamico, nato da una costola di Al Qaeda: sono occorsi quattro anni (2014-2018) per distruggere la sua entità territoriale fra Siria e Iraq, ma come movimento terroristico esiste ancora e fa proseliti in tutto il mondo musulmano. In Europa non conoscevamo ancora il fenomeno degli attentatori islamici che agiscono in proprio, i “lupi solitari”, ma dagli anni ’10 di questo secolo sono diventati purtroppo un incubo costante per la pubblica sicurezza.

L’Occidente appare in rotta: gli americani hanno appena lasciato l’Afghanistan, ma anche i francesi si stanno ritirando dal Sahel (terra di conquista per Al Qaeda sin dalla fine degli anni ’90) e l’amministrazione Biden ha promesso di andarsene anche dall’Iraq entro la fine dell’anno. Ovunque l’Occidente non lascia sul posto governi amici che combattono il terrorismo, ma governi instabili (nel Sahel), amici dei nemici (Iraq) o apertamente filo-terroristi. Il caso esemplare è proprio l’Afghanistan, dove tutto è iniziato. I Talebani, che ospitarono bin Laden e gli permisero di condurre gli attacchi su New York e Washington, non solo esistono ancora, ma sono tornati al potere. Venti anni dopo l’11 settembre possono formare il loro governo, con un primo ministro nella lista nera del terrorismo dell’Onu e un ministro degli Interni ricercato dall’Fbi.

Eppure l’11 settembre è stato il momento in cui “abbiamo aperto gli occhi” sulla minaccia islamica, come ben aveva descritto Oriana Fallaci nel suo celeberrimo La rabbia e l’orgoglio. Perché li abbiamo chiusi di nuovo, nel ventennio successivo? Come abbiamo già scritto in queste colonne, la sconfitta nella guerra al jihadismo non è stata militare, ma politica. Bisognerebbe, a questo punto, capire perché la politica ha deciso di smettere di combattere, negli Stati Uniti prima di tutto, ma anche nei governi alleati europei. Alle spalle delle ragioni politiche ci sono sempre forti ragioni culturali. Vediamone alcune: materialismo, relativismo, terzomondismo.

Materialismo: le classi dirigenti americane e occidentali in generale, si sono dimostrate talmente secolarizzate da non capire come funzioni un movimento religioso e millenarista quali sono i movimenti jihadisti (Al Qaeda, Stato Islamico e loro alleati locali). La dimostrazione di quanto i dirigenti occidentali non abbiano capito, fino all’ultimo, come ragioni il nemico, si può trovare anche nelle sconcertanti frasi di Zalmay Khalilzad, inviato di pace degli Usa per la crisi afgana. Alla vigilia della caduta di Kabul, avvertiva i Talebani: “Ogni governo che arrivi al potere con la forza in Afghanistan, non verrà riconosciuto dalla comunità internazionale”. Anche il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha detto all’incirca la stessa cosa. A parte il fatto che i Talebani non sono affatto isolati (hanno dalla loro il Pakistan e la Cina), l’idea stessa che possano essere intimiditi dalla prospettiva di un isolamento internazionale è ridicola. I Talebani hanno una visione del mondo religiosa, si preoccupano dell’aldilà e di come conquistare il paradiso, molto più che di essere riconosciuti diplomaticamente da Stati (secolari, dunque infedeli) con cui fare affari.

Il mondo degli esperti delle Relazioni Internazionali ha sempre privilegiato un’interpretazione materialista del conflitto con i jihadisti. Dopo aver ridicolizzato uno dei pochi dissenzienti, Samuel Huntington autore dello Scontro di Civiltà, il mondo dell’accademia ha sostenuto, ad esempio, che lo scopo dei Talebani fosse quello di rappresentare la maggioranza pashtun in Afghanistan e che quello dello Stato Islamico fosse di impossessarsi delle ricche risorse del Nord Iraq a nome e nell’interesse degli arabi sunniti. Come constata con amarezza l’ex premier britannico Tony Blair, secondo l’interpretazione corrente non esiste alcuna minaccia globale jihadista ed è considerato politicamente scorretto nominare l’islam radicale: ogni causa è locale e lo scopo è sempre riconducibile a qualche interesse materiale. Il politico è dunque spinto a cercare accordi locali, con criteri puramente politici, senza affrontare alcuna sfida ideologica e religiosa. E i jihadisti trattano volentieri, se hanno poi la prospettiva di ingannare il nemico e vincere la guerra.

L’incapacità di una cultura secolarizzata a comprendere la causa religiosa di questa guerra è manifesta soprattutto di fronte ai “lupi solitari”. Se un singolo jihadista decide di compiere un’azione suicida per uccidere se stesso e le sue vittime “infedeli” o “apostati”, non può infatti essere mosso da alcun interesse politico o materiale. Ma in questo caso, sia i media che la politica preferiscono ricorrere alla spiegazione psichiatrica. Se lo fa non è perché islamico, ma perché “pazzo”, con diagnosi spiccate post mortem, immediatamente dopo l’uccisione o il suicidio dell’attentatore e senza neppure verificare i suoi trascorsi.

Il relativismo, denunciato da papa Benedetto XVI come la dittatura (culturale) dei nostri tempi è sicuramente alla base di molti di questi ragionamenti materialistici. Il relativismo impedisce al filosofo di distinguere il vero dal falso, dunque anche il giusto dall’ingiusto e di conseguenza non permette di affermare che un sistema politico sia superiore a un altro. L’unico divieto che resta è sul giudizio di un’altra cultura. Se avessimo adottato lo stesso criterio negli anni ’30 e ’40, avremmo dovuto affermare che i Paesi liberi non avevano nulla da insegnare al regime nazista, perché ciascuno ha il proprio sistema di valori. Così è stato in questo lungo conflitto. In un piccolo episodio, ora dimenticato, l’allora premier Silvio Berlusconi dopo l’11 settembre affermò che la civiltà occidentale, sotto attacco, fosse “superiore”. Di fronte a minacce di boicottaggio dei suoi partner in affari musulmani e sottoposto a una pressione mediatica insostenibile, Berlusconi dovette ritrattare le sue affermazioni. In un episodio molto più celebre, la lezione magistrale di Ratisbona di Benedetto XVI, che metteva in guardia dal pericolo di una ragione svincolata dalla fede (in Occidente) così come di una fede svincolata dalla ragione (nel mondo islamico), finì sotto attacco in tutto il mondo, provocando episodi di violenza anti-cristiana in diversi Paesi musulmani (che dimostrarono, indirettamente, quanto quella lezione fosse utile). Dalla sua prima amministrazione, Barack Obama eliminò dalle linee guida dell’addestramento della polizia ogni riferimento al terrorismo “islamico” per non offendere la religione dei musulmani. Obama arrivò a definire “non islamico” lo Stato Islamico. L’amministrazione Biden fa di più, rendendo chiaro sin da subito che considera il pericolo del “suprematismo bianco” di estrema destra più grave rispetto a quello della minaccia jihadista.

Il terzomondismo (termine degli anni Sessanta per indicare l’ideologia marxista a sostegno di movimenti socialisti nati nel mondo post-coloniale) è infine dominante non solo nei movimenti antagonisti. La prova, anche qui, sta nella reazione corale, pressoché unanime, del mondo delle Ong subito dopo l’11 settembre: chi semina vento raccoglie tempesta. Appena quattro giorni prima, ben tremila rappresentanti di Ong, partecipando alla Conferenza contro il razzismo di Durban, avevano avanzato una risoluzione in cui si equiparava il sionismo al razzismo e si chiedeva un risarcimento per le vittime del colonialismo e della tratta degli schiavi. In una visione del mondo in cui tutti i mali derivano dall’Occidente (Usa e Israele in particolar modo), anche l’attacco all’America è stato visto come una “risposta” dei “poveri” al mondo dei “ricchi”. Se l’11 settembre fu una “risposta”, il motivo va affrontato con il dialogo, cercando di ascoltare le ragioni di chi è stato tanto esasperato da arrivare al suicidio pur di assassinare 3mila civili americani. E questa mentalità, trasversale, ha legato le mani alla politica ogni volta che si è dovuto rispondere militarmente al terrorismo. È anche alla base della pressione esercitata su Israele, perché concedesse uno Stato alla Palestina: uno spreco di tempo ed energie diplomatiche, non solo perché la leadership palestinese ha sempre rifiutato, ma anche perché il movimento jihadista non si muove solo a causa della Palestina, uno dei suoi tanti fronti.

Materialismo, relativismo, terzomondismo sono tre potenze del pensiero che hanno infine indotto la politica a smettere di combattere contro il jihadismo. Le nostre opinioni pubbliche, la cui attenzione è catturata dal Covid, negli Usa anche dalle elezioni più contestate della storia recente, il terrorista islamico è diventato l’ultima delle preoccupazioni. Se avremo fortuna, continuerà ad esserlo. Ma il jihadista, contrariamente all’uomo medio occidentale, sa ragionare in termini religiosi universali, non ha il nostro stesso senso del tempo e si è dimostrato capace di vincere una guerra in venti anni (una generazione). Ora noi appariamo collettivamente sconfitti. Quindi può succedere ancora: un nuovo 11 settembre.