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LA CONTESTAZIONE

Un Sessantotto palestinese nelle università americane

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Con più di 100 università in agitazione, quello per la Palestina è il movimento studentesco più vasto dai tempi della guerra del Vietnam. Fra i manifestanti, la maggioranza è estranea alla popolazione universitaria. Sempre più università chiamano la polizia per far sgomberare le occupazioni. L'Onu condanna la polizia. E l'Iran gode. 

Esteri 02_05_2024
Picchetto di manifestanti pro-Palestina alla Columbia University (La Presse)

La protesta pro-Palestina nelle università americane è arrivata a un punto di svolta. Il culmine è stato raggiunto nei primi giorni di questa settimana, fra lunedì 29 e martedì 30 aprile, quando i manifestanti, accampati di fronte alle sedi universitarie o barricati in edifici occupati, sono stati sgomberati a forza dalla polizia, dove non hanno raggiunto un accordo con le autorità per ritirarsi pacificamente. La stragrande maggioranza degli arrestati è costituita da estranei all’università, né studenti, né docenti, né membri del personale, ma professionisti del disordine e attivisti politici di sinistra.

Dalla Columbia University in poi, sono più di cento le università, i campus, i college e le scuole in cui gli studenti manifestano, con occupazioni, presidi, picchetti, marce. La domanda è sempre la stessa ovunque: interrompere ogni contatto con Israele, disinvestire in quelle imprese che possano essere direttamente o indirettamente coinvolte con Israele e con la guerra a Gaza. Ma c'è di più. A giudicare dagli slogan dei manifestanti, oltre che dalle loro richieste, non solo si protesta contro la guerra a Gaza, ma si contesta l'esistenza stessa di Israele, considerato uno "Stato di coloni" (settlers, in inglese), al pari degli Stati Uniti. Il moto di protesta, dunque, è la diretta emanazione di quella rivoluzione woke che contesta la legittimità degli Usa, considerati come una nazione nata dalla colonizzazione, a scapito dei nativi. 

Gli arresti, in tutto il paese, sono quasi un migliaio. Non tutti hanno scelto la via della repressione, altre autorità accademiche hanno scelto il dialogo, come alla Brown University di Providence e alla Northwestern University dell’Illinois, ma al prezzo di amare concessioni politiche, ai danni soprattutto della fiorente collaborazione scientifica con gli atenei israeliani.

Ogni amministrazione si trova sola e costretta a una scelta fra due diritti opposti. Da un lato c’è il diritto alla libertà di espressione, di assemblea e dunque anche di manifestazione. Dall’altra, però, c’è il diritto allo studio che viene negato con le occupazioni e i picchetti, soprattutto viene meno la sicurezza per gli studenti e gli insegnanti ebrei. Buona parte delle università, fra cui la stessa Columbia University di New York, ha scelto di chiamare la polizia solo quando le proteste sono diventate violente e hanno colpito studenti dissenzienti.

Minouche Shafik, la direttrice della Columbia, è sotto attacco, sia da destra che da sinistra: a sinistra l’accusano perché ha chiamato la polizia (“risposta sproporzionata”), a destra il presidente della Camera, il repubblicano Mike Johnson, la accusa di non aver protetto gli studenti dalla violenza dei manifestanti. Secondo Greg Lukianoff, il fondatore del Fire (Fondazione per i Diritti Individuali e la Libertà di Espressione), uno dei più attenti osservatori dell’ideologizzazione delle università, le autorità accademiche, finora, si sono comportate male: «non fanno distinzioni appropriate tra discorsi protetti come le proteste, atti di disobbedienza civile per i quali gli studenti potrebbero aspettarsi di essere puniti e azioni più gravi come la violenza o le minacce di violenza».

Alla Columbia si è assistito alla tipica dinamica dell’escalation. Due settimane fa, la polizia ha sgomberato un accampamento, arrestando più di 100 studenti. Gli amministratori si sono poi incontrati con i negoziatori dell’accampamento per otto giorni, ma alla fine hanno raggiunto un'impasse. La Columbia ha anche offerto di rivedere l’accesso ai suoi programmi a Tel Aviv, ma il gruppo studentesco ha detto che sarebbe stato impossibile, per questi programmi, allinearsi con le politiche antidiscriminatorie dell'università «considerando il quadro di apartheid e colonizzazione inerente all’entità sionista» (sic!). La polizia è entrata nel campus martedì sera, arrestando più di 100 persone, ma solo dopo che un gruppo di manifestanti aveva occupato un edificio amministrativo.

Le forze dell’ordine sono intervenute, ad oggi, oltre che alla Columbia, anche all’Università del Texas di Austin, la Emory University, il City College di New York, l’Università dell’Arizona. I manifestanti sono stati arrestati a seguito di occupazioni di edifici universitari alla Cal Poly Humboldt, all’Università del Connecticut, all’Università della Florida, all’Università della Georgia, alla Virginia Commonwealth University e all’Università di Princeton. Manifestanti filo-palestinesi si sono scontrati con la polizia all’Università della Carolina del Nord a Chapel Hill dopo che un raid mattutino ha sgomberato un accampamento martedì 30. Il peggio è avvenuto all’Università della California Los Angeles (Ucla) dove manifestanti pro-Palestina si sono scontrati con i contro-manifestanti, con grande uso di fuochi d’artificio usati come arma, bastoni e pietre.

La caratteristica che accomuna gli arrestati è la grande percentuale di estranei al mondo universitario. Eric Adams, sindaco di New York, dopo gli arresti alla Columbia e al City College, ha dichiarato che fra gli arrestati vi erano anche “esterni” che erano stati cooptati dal movimento di protesta. Lo stesso dichiarato dalle autorità dell’Università Tulane, di New Orleans: la stragrande maggioranza dei manifestanti non c’entra nulla con l’università. All’Università del Texas, ben 45 dei 79 arrestati non erano associabili alla popolazione universitaria. Dei 20 arrestati all’Università dello Utah, solo cinque erano studenti e uno un impiegato.

L’amministrazione Biden reagisce dando un colpo al cerchio e l’altro alla botte. Commentando gli ultimi eventi, la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, ha affermato che «ogni americano ha il diritto di manifestare pacificamente», ma «l’occupazione di edifici non è una protesta pacifica».

L’Onu, invece, prende decisamente le parti degli studenti (e non) pro-Palestinesi. Così il responsabile per i diritti umani Volker Turk: «Sono preoccupato che alcune delle azioni delle forze dell’ordine in una serie di università appaiano sproporzionate nel loro impatto». E il diplomatico austriaco ha aggiunto: «La libertà di espressione e il diritto di riunione pacifica sono fondamentali per la società, in particolare quando c’è un forte disaccordo su questioni importanti, come in relazione al conflitto nei Territori palestinesi e in Israele».

A godere maggiormente del caos americano è chiaramente l’Iran. Così l’ayatollah Alì Khamenei: «La pressione sul regime sionista dovrebbe aumentare giorno dopo giorno». Lo ha detto in un incontro con gli educatori, lodando le proteste per la Palestina nelle università americane ed europee: «Il regime sionista e i suoi sostenitori americani ed europei non possono rimuovere la questione di Gaza dall'agenda dell’opinione pubblica mondiale, dal momento che è la prima questione per il mondo». La Guida Suprema di un regime che ha fatto 420 morti nella repressione della protesta del 2022 (e oltre 800 esecuzioni capitali nel solo 2023), ora difende la libertà di manifestazione degli studenti americani, aggiungendo la ciliegina sulla torta in un periodo già difficile.