Terzo mandato: cosa attendersi dal compagno Xi
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Xi Jinping è stato eletto anche formalmente presidente della Cina, per il terzo mandato di fila. La sua è una concentrazione di poteri senza precedenti, considerando che era stato anche rieletto segretario del Partito Comunista. Cosa dobbiamo attenderci? Più repressione contro le religioni e una politica estera più muscolare contro gli Usa.
Da giovedì, il presidente cinese Xi Jinping è stato, anche ufficialmente, riconfermato per un terzo mandato consecutivo. Il “parlamento” del regime comunista di Pechino, l’Assemblea Nazionale del Popolo, lo ha eletto all’unanimità. Neanche un voto in dissenso. La procedura è stata praticamente solo una formalità, perché Xi, che ha riformato la costituzione apposta per superare il limite dei due mandati, era ormai chiaramente destinato a governare ancora. Essendo anche stato riconfermato, dall’ultimo Congresso, anche segretario del Partito Comunista, nelle sue mani si ritrova la maggior concentrazione di potere dai tempi di Mao Zedong.
Cosa dobbiamo attenderci dal suo terzo mandato? Sappiamo, per lo meno, quel che ha fatto finora. Xi Jinping è asceso al vertice della Cina nel 2013, quando era in corso una vera purga nel Partito. Xi è stato eletto quale campione della causa anti-corruzione. Ha riportato l’egemonia dell’economia statale su quella privata, ha stretto le maglie del protezionismo, imposto di nuovo l’ateismo all’interno del Partito e la sinicizzazione (eufemismo per indicare il controllo del Partito) sulle religioni in tutto il Paese. A farne le spese sono stati soprattutto cristiani, tibetani, uiguri e musulmani in generale. I tre anni di pandemia hanno dato l’occasione a Xi Jinping di dare un ulteriore giro di vite repressivo, stabilendo un controllo ancor più capillare su tutti i cittadini. I due mandati di Xi sono stati anche caratterizzati dalla fine della politica del figlio unico, per riprendere l’espansione demografica e cercare (forse invano) di evitare il prossimo invecchiamento della popolazione. Infine, la sua è stata una politica estera muscolare, con la fine definitiva dell’autonomia di Hong Kong (contro gli accordi presi con il Regno Unito prima della sua restituzione) e le continue minacce a Taiwan.
Il terzo mandato serve a Xi Jinping per completare l’opera, evidentemente. Le premesse sono abbastanza chiare. Nella sessione di apertura dell’Assemblea, il 5 marzo, il premier uscente Li Keqiang ha annunciato un ulteriore aumento del processo di sinicizzazione delle religioni. Il principio è “guidare attivamente le religioni ad adattarsi alla società socialista”. Le autorità locali hanno mano libera per imporre la sinicizzazione e spesso lo fanno con zelo. Ad esempio, la provincia dello Henan ha imposto ai fedeli di tutte le confessioni di registrarsi per poter partecipare a funzioni religiose. Gli anni scorsi sono stati caratterizzati, nello Henan e altrove, da vaste campagne di “migliorie urbane” in cui croci, campanili e intere chiese (ma anche templi e moschee) sono stati abbattuti. Molti degli edifici religiosi risparmiati dalla demolizione sono stati convertiti ad altro uso, come centri sociali e biblioteche, cambiati anche nel loro aspetto esteriore, ricostruiti in “stile cinese”.
Questa politica, che riguarda anche i cattolici ed è proseguita dopo la firma degli accordi segreti con il Vaticano, è accompagnata da gesti distensivi. Ad esempio, per il prossimo 17 aprile, il vescovo di Hong Kong mons. Stephen Chow si recherà a Pechino per una visita di cinque giorni. E sarà accompagnato anche dal vescovo ausiliare Joseph Ha e dal vicario generale della diocesi Peter Choy. Joseph Ha, soprattutto, è stato un aperto sostenitore delle proteste di Hong Kong del 2019, contro la soppressione dell’autonomia della ex colonia britannica.
Questo vuol dire che ci si prepara ad una distensione? Non tanto, considerando che, con la nuova Legge per la sicurezza nazionale, sono sempre più gli oppositori che vengono arrestati. Questa settimana è toccato a un’altra cattolica nota a Hong Kong, Elizabeth Tang, moglie del sindacalista Lee Cheuk-yan. È stata fermata dalla polizia, proprio di fronte al carcere dove aveva appena concluso una visita al marito. Elizabeth Tang, assieme al marito, organizzava la veglia per ricordare il massacro di Piazza Tienanmen del 1989. Ora, anche nella città ex britannica quella memoria deve sparire dai libri e dalla memoria collettiva.
Ma più che a Hong Kong, che ormai è aggiudicata, la leadership cinese pensa a Taiwan, una Cina di fatto indipendente che a Pechino viene ancora considerata come un’inaccettabile provincia ribelle. La tensione è sempre stata forte con l’isola che fu luogo di rifugio dei nazionalisti cinesi nel 1949, dopo la fine della guerra civile. Ma mai come in quest’ultimo anno, il governo comunista è stato così esplicito nelle sue intenzioni di invaderla, a costo di sfidare apertamente gli Stati Uniti.
Merito anche di crisi più recenti, come quella dei palloni spia cinesi sugli Usa o le accuse statunitensi sugli aiuti cinesi alla Russia, il clima è quello di una guerra fredda. E si sente, dai discorsi. A margine dei lavori dell’Assemblea, il ministro degli Esteri Qin Gang ha catturato l’attenzione dell’audience internazionale con poche e lapidarie parole: “Se gli Stati Uniti continuano ad accelerare sulla strada sbagliata, nessun guardrail potrà impedire il deragliamento (delle relazioni bilaterali), che sfocerà inevitabilmente nello scontro e nel conflitto. Chi sopporterà le conseguenze catastrofiche che ne deriveranno?”
Anche lo stesso presidente Xi Jinping ha rivolto una durissima accusa agli Usa, per la prima volta in pubblico. Solitamente molto prudente e attento a non nominare mai apertamente i suoi avversari, stavolta è stato esplicito: “I Paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, hanno implementato una politica di contenimento della Cina a tutto tondo, di accerchiamento e di soppressione nei nostri confronti, ponendo una sfida senza precedenti allo sviluppo del Paese.
Ai toni muscolari seguono anche gli investimenti negli armamenti: anche quest’anno si registra un +7,2% nelle spese della difesa, leggermente di più rispetto al +7,1% dell’anno scorso. La Cina è attualmente il Paese che produce più navi da guerra al mondo.