Suicidio assistito, il caso Oppelli apre la strada alla barbarie
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Sostenuta dai radicali e facilitata dalle sentenze della Corte Costituzionale, Martina Oppelli, malata di sclerosi multipla, denuncia per tortura la ASL che le nega il suicidio assistito. Il giudice di cassazione Giacomo Rocchi: «Dal punto di vista penale è un bluff, ma stiamo scivolando verso una società che elimina malati e anziani».
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«La verità è che stiamo costruendo una società che pretende di cancellare la solidarietà ed eliminare chiunque – a partire da malati e anziani – non sia più produttivo o diventi troppo costoso. È questa la vera posta in gioco nel caso di Martina Oppelli, sbandierato dall’associazione Luca Coscioni». Il giudizio di Giacomo Rocchi, presidente di sezione della Corte di Cassazione è molto chiaro sul caso tornato a occupare le prime pagine dei giornali.
Martina Oppelli (nella foto), architetto 49enne di Trieste, affetta da sclerosi multipla progressiva, è purtroppo solo l’ultima testimonial di una campagna per la morte che l’associazione radicale, il cui volto più noto è Marco Cappato, sta portando avanti da anni spingendo passo dopo passo la legislazione italiana verso la totale accettazione del diritto alla morte.
La vicenda dolorosa di Martina Oppelli è stata trasformata nel solito circo mediatico lo scorso maggio quando, tramite l’associazione Luca Coscioni, la donna ha fatto richiesta di suicidio assistito presso l’Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina (ASUGI). La quale ASUGI ha però respinto la richiesta per due volte, l’ultima il 28 agosto, ritenendo che non ci sia una delle condizioni previste dalla sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale, ovvero il fatto che la persona che richiede il suicidio assistito deve essere tenuta in vita da supporti vitali.
Così il 29 agosto Martina Oppelli, assistita ovviamente dall’associazione Coscioni, ha annunciato di avere sporto denuncia penale contro l’ASUGI per tortura e rifiuto di atti di ufficio. Una decisione clamorosa «ma dal punto di vista penale è solo un bluff – spiega Rocchi -. Il reato di tortura prevede che il pubblico ufficiale provochi la sofferenza di chi ha in custodia; ma in questo caso la sofferenza è provocata dalla malattia e non si può certo accusare di tortura chi offre una terapia per alleviare tale sofferenza». E anche sul rifiuto di atti di ufficio la denuncia è chiaramente una provocazione propagandistica se non un atto d’intimidazione: «Bisogna ricordare – prosegue Rocchi – che la sentenza della Consulta del 2019 non era un riconoscimento dell’aiuto al suicidio, ma la depenalizzazione del reato in alcune precise circostanze. E quindi demanda all’Azienda Sanitaria Locale (ASL) l’accertamento della situazione, ovvero il ricorrere nel caso specifico delle condizioni previste. In questo caso il parere è stato dato ben due volte ed è negativo. Denunciare ora l’ASL per questo vuol dire considerare che il parere debba sempre essere positivo, e che non essere d’accordo sia un reato. Il che è semplicemente ridicolo».
Ciò non toglie però che l’aiuto al suicidio possa essere ancora accordato a Martina Oppelli, la cui richiesta è infatti già stata presentata in tribunale: «Con l’ultima sentenza, la 135 del 2024, - spiega Giacomo Rocchi – la Corte Costituzionale afferma che la persona che richiede il suicidio può ancora rivolgersi al giudice civile, che può decidere in difformità rispetto al parere della ASL».
Il che è certamente un passaggio importante perché, mentre già dal 2019 chiede al Parlamento una legge chiara sul tema, la Consulta apre ancora di più – seppure implicitamente - la porta al diritto al suicidio assistito e all’eutanasia. «Con la sentenza 135/2024 – spiega ancora Rocchi - si amplia il concetto di dipendenza da sostegni vitali, estendendosi a tutta quella gamma di proprie necessità fondamentali che il malato può soddisfare solo con l’intervento di caregiver (infermieri, badanti, ecc.) o familiari».
Le conseguenze di questo cambiamento sono evidenti, dal diritto a rifiutare terapie salvavita si entra in una dimensione in cui una certa qualità della vita viene ritenuta non degna di essere vissuta. È evidente anche nelle parole di Martina Oppelli, che in 24 anni ha visto gradualmente peggiorare le sue condizioni fino al punto di perdere gran parte delle sue facoltà e ha spiegato il suo sentimento affermando che «la mia (…) è una scelta d’amore verso la vita che ho avuto» e che evidentemente non potrà più avere.
Di fatto dunque il principio che muove i radicali è che si debba stabilire per legge un livello di qualità della vita al di sotto della quale sia lecito il diritto a morire. «Ma quando uno Stato riconosce che un soggetto deve essere aiutato a morire – afferma il giudice di Cassazione - dice che c’è una condizione per cui le persone è bene che muoiano se lo richiedono. E l’esperienza dimostra che da qui si passa facilmente all’uccisione di chi, in quella condizione, non lo ha chiesto».
E l’allargamento del concetto di “sostegni vitali” alle persone che si occupano del malato è agghiacciante «perché qui – dice ancora Rocchi - siamo già nel mondo delle persone anziane, e di tutti quanti sono in qualche modo dipendenti». Lo scenario che si prospetta, obiettivo vero dei radicali avallato dalla Corte Costituzionale, quindi è abbastanza chiaro quanto raccapricciante: le persone che non sono produttive, le persone che dipendono da altri è bene che muoiano, invece di aiutare si preferisce eliminare. «La sostanza – conclude Rocchi – intorno alla quale ruota tutta la campagna dell’Associazione Luca Coscioni è proprio questa: cancellare la solidarietà, eliminare gli improduttivi. Possiamo pensare con queste premesse cosa possa accadere con una crisi economica, con l’impossibilità di sostenere i costi della sanità. Pensiamo a cosa potrà accadere nelle case di riposo, o quando le famiglie faranno fatica a pagare le badanti… Quanto sta accadendo deve farci riflettere su che tipo di società stiamo diventando».
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