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La sentenza

Sostegni vitali e suicidio assistito, una Consulta a due facce

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La Corte costituzionale mantiene i trattamenti di sostegno vitale come prerequisito per accedere al suicidio assistito. Deluse le speranze dei Radicali, ma nemmeno i pro vita esultano. Da un lato la sentenza allarga il bacino di possibili candidati al suicidio. Dall’altro, rispetto al 2019, dà un’interpretazione più restrittiva dei sostegni vitali.

Vita e bioetica 20_07_2024

Come ormai i nostri lettori sanno bene, la Corte costituzionale con la sentenza n. 242/2019 (qui un approfondimento) ha legittimato l’accesso all’aiuto al suicidio nel rispetto di alcuni criteri. I Radicali, volendo liberalizzare il più possibile l’eutanasia, hanno dichiarato guerra ad un particolare criterio: il paziente deve essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Sulla portata di questo requisito si è espresso di recente anche il Comitato nazionale per la bioetica, dandone un’interpretazione restrittiva.

Su questo criterio la Corte costituzionale si è nuovamente pronunciata con la sentenza n. 135/2024, sentenza depositata il 18 luglio scorso. Come si è arrivati per l’ennesima volta alla Consulta? Felicetta Maltese, Chiara Lalli e il radicale Marco Cappato nel dicembre 2022 accompagnarono in Svizzera Massimiliano Scalas, affetto da sclerosi multipla in grado avanzato, al fine di farlo accedere alla procedura del suicidio assistito. I tre si autodenunciarono per la sua morte perché a Scalas mancava il requisito suddetto. Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze sollevò questione di legittimità costituzionale in merito a questo criterio perché, a suo dire, confliggente «con i principi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione terapeutica, di dignità della persona, nonché con il diritto al rispetto della vita privata riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo» (così il comunicato della Consulta). La Corte ha respinto la richiesta del Gip. Vediamo però nel dettaglio cosa hanno detto i giudici.

Innanzitutto la sentenza apparentemente si articola partendo dalla tutela del bene vita. Alcuni media cattolici si sono rallegrati di questo approccio, ma è un’illusione. Il concetto di tutela della vita delle persone della Consulta è, alla fine, il medesimo di quello dei Radicali: la vita è un bene solo se lo ritiene tale il diretto interessato, altrimenti costui legittimamente se ne può disfare. La vita è quindi un bene disponibile e non indisponibile. Altrimenti perché permettere il suicidio assistito? Le argomentazioni della Corte sul fatto che l’autonomia decisionale del paziente non può essere intesa in senso assoluto, perché occorre un bilanciamento tra autodeterminazione e tutela delle persone più fragili, sono esse stesse fragili. Sia perché, predicato un diritto al rifiuto a trattamenti salvavita, si predica a monte un diritto a morire che non può conoscere limiti, sia perché questo stesso diritto può essere inteso benissimo nella sua assolutezza senza per questo pregiudicare la tutela di soggetti particolarmente fragili.

Ma andiamo al nocciolo della questione. Il Gip, tra le altre motivazioni, chiedeva l’eliminazione del requisito dei sostegni vitali perché discriminatorio. Tale scriminante creerebbe una disparità di trattamento tra chi, volendo morire, è mantenuto in vita da particolari trattamenti e chi, volendo morire, non è tenuto in vita da sostegni vitali. La Consulta non elimina il requisito dei trattamenti vitali perché non lo considera discriminatorio. Ma le motivazioni che porta a sostegno di questa sua decisione non sono convincenti. Infatti nella sentenza leggiamo: la Corte «ha soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che […] già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 […], di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Una simile ratio, all’evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure».

La Corte quindi, tenendo fermo il criterio qui in esame, fa “semplicemente” un passo più in là rispetto alla legge 219: questa prevede la possibilità di rifiutare anche terapie salvavita e poi la morte giungerebbe da sé. Con la sentenza del 2019, dopo il rifiuto delle terapie salvavita, ecco che si può ricorrere al suicidio assistito, anticipando così il momento della morte, perché, così dice la sentenza, sarebbe irragionevole sanzionare una persona che ti aiuta a morire se stai già morendo. Dunque la ratio che legittima il suicidio assistito è meramente pragmatica perché guarda alla condizione fattuale del richiedente: paziente ad un passo dalla morte.

Ma tale ratio restrittiva entra in contraddizione con l’involuzione sul tema del fine vita registrata negli ultimi anni nei tribunali italiani. Purtroppo, ormai da decenni, la giurisprudenza ha affermato che esiste il diritto a rifiutare qualsiasi tipo di terapia, anche quelle salvavita. Ergo esiste un diritto alla morte, come implicitamente affermato dalla legge 219/17 richiamata dalla stessa Consulta (la quale invece nega che esista simile diritto entrando in contraddizione con sé stessa laddove celebra il principio di autodeterminazione). Se esiste questo diritto, deve essere riconosciuto erga omnes e il suo esercizio deve essere soddisfatto in tutti i modi e circostanze, quindi anche con il suicidio assistito, che è il diritto di disporre di sé con l’aiuto di terzi, e anche quando non si è tenuti in vita da sostegni vitali. Per esemplificare, se esiste il diritto a morire può essere legittimamente rivendicato anche da chi ha una patologia cronica gravemente invalidante, ma non è sul punto di morire, e vorrebbe farla finita non gettandosi da un ponte ma con l’aiuto della medicina. Purtroppo, data la premessa aberrante – esiste il diritto a morire – non si può che trarre la necessaria conclusione: l’accesso al suicidio assistito deve essere garantito anche a chi non è tenuto in vita da particolari trattamenti. Poco importa perciò il criterio dell’imminenza della morte. La Corte, oltre a ricordare tale ultimo requisito, frena poi su questo aspetto per mera prudenza: aprire a tutti al suicidio assistito provocherebbe una pericolosa pressione sociale sulle persone più fragili.

In questa sentenza, poi, la Consulta specifica meglio la portata del criterio che stiamo esaminando. Da una parte allarga il bacino di possibili candidati al suicidio assistito. Infatti potrà accedervi non solo chi è già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, ma chi è sul punto di accedervi, dato che le due fattispecie sono analoghe perché, se il paziente non si sottopone a tali cure, morirà a breve.

Su altro fronte restringe l’accesso al suicidio assistito. Infatti nella sentenza possiamo leggere che le terapie salvavita sono anche «quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero [essere] apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente. Nella misura in cui tali procedure – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019». Dunque sono trattamenti di sostegno vitale tutti quei trattamenti che, se non posti in essere, possono determinare la morte del paziente in un breve lasso di tempo. Tali interventi, in teoria, potrebbero quindi essere innumerevoli (c’è dunque da domandarsi perché allora il caso di Scalas non possa rientrare in questi ultimi parametri indicati dalla Corte).

Però è anche vero che questo criterio temporale restringe il portato interpretativo del requisito dei sostegni vitali come era stato espresso nella precedente sentenza del 2019. Infatti l’indicazione ivi contenuta, senza altra specifica, di trattamenti salvavita poteva far includere anche, ad esempio, la chemioterapia e la dialisi. E dunque ora la Corte esclude dal suicidio assistito categorie di pazienti che non sono prossimi alla morte: pazienti oncologici, malati cronici, pazienti affetti da patologie neurodegenerative, etc. Sotto questo aspetto i Radicali hanno perso la loro partita: pensavano ad una cancellazione del criterio incriminato e invece i giudici hanno regalato loro un’interpretazione dello stesso che, rispetto alla sentenza n. 242, è alla fine dei conti maggiormente restrittiva.

Infine la Corte invita nuovamente il Parlamento a legiferare perché, trattandosi di condotte di rilievo penale, occorre una norma che disciplini la materia in modo tassativo, senza lasciare angoli bui nella sua applicazione, potendo la Consulta, che in realtà ha già indossato i panni del legislatore, solo indicare criteri di massima.



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