Sostegni vitali, il parere del Comitato per la bioetica ai raggi X
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Il Comitato nazionale per la bioetica ha pubblicato un parere con una definizione restrittiva dei trattamenti di sostegno vitale. Una definizione che pare volta a limitare i danni in tema di suicidio assistito. Il nodo dello scandalo da evitare.
La Corte costituzionale con la sentenza n. 242/2019 (qui un approfondimento) ha legittimato l’aiuto al suicidio (non lo ha semplicemente depenalizzato, ma è diventato un vero e proprio diritto). Per accedere al suicidio assistito occorre la presenza di più criteri: la persona deve essere affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che qualifica come intollerabili; deve essere pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli e infine deve essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale.
I Radicali vogliono eliminare quest’ultimo criterio così da ampliare a dismisura i possibili candidati al suicidio assistito. Tale requisito è stato oggetto anche della richiesta di un parere al Comitato nazionale per la bioetica (CNB) da parte del Comitato etico territoriale (CET) della Regione Umbria. Il 20 giugno scorso il CNB ha pubblicato il documento dal titolo Risposta al quesito del Comitato Etico Territoriale della Regione Umbria del 3 novembre 2023.
Nel documento si legge che «viene chiesto un parere “circa i criteri da utilizzare per distinguere tra ciò che è un trattamento sanitario ordinario e ciò che debba essere considerato un trattamento sanitario di sostegno vitale [TSV], per permettere ai comitati etici territoriali la corretta applicazione in concreto dei dettami previsti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019”. Il CNB ha rilevato che, in letteratura medica, non esiste una definizione condivisa di TSV». Secondo il CNB per individuare la natura dei TSV occorre la presenza contemporanea di questi requisiti così esplicitati: «Finalità: i TSV sono indirizzati alla risposta a condizioni che mettono a rischio la vita, in un arco di tempo breve o addirittura brevissimo (quando si tratta non di un semplice “sostegno”, ma di una vera e propria “sostituzione” di una funzione vitale che l’organismo è ormai del tutto incapace di assicurare autonomamente). Intensità: i TSV impiegano spesso tecnologie avanzate e procedure specialistiche, e possono implicare una forte invasività e continuità nel tempo. Non vanno confusi con un trattamento o un farmaco salvavita (per esempio l’adrenalina per lo shock anafilattico). Sospensione: la sospensione di un TSV provoca conseguenze fatali immediate o comunque rapide, in relazione al tipo di trattamento e alle condizioni cliniche del paziente».
Quindi, secondo il CNB, non potrebbero essere ricompresi nella categoria dei TSV, ad esempio, la chemioterapia, la dialisi, i pacemaker, gli antibiotici per gli ustionati, le pastiglie per il cuore, l’assistenza per i disabili gravi perché la loro interruzione porta sì a morte, ma non in tempi rapidi. Dunque il criterio discriminante per distinguere tra terapie ordinarie e terapie salvavita è duplice: il tempo di sopravvivenza minima allorquando tali terapie vengono interrotte e poi la caratteristica della terapia che deve essere sostitutiva di funzioni vitali e non meramente adiuvante. L’invasività, la continuità nel tempo, l’elevata tecnologia utilizzata e le procedure specialistiche sono criteri eventuali, non necessari. Ergo sarebbero TSV tutti quei trattamenti che sostituiscono la funzione respiratoria e cardiaca, la funzione renale, la funzione biochimico-metabolica assicurata dal sistema gastrointestinale e di depurazione. Il CNB esclude dal novero dei TSV la soddisfazione di bisogni vitali – acqua, cibo e aria – ma è stata la stessa Corte costituzionale a qualificare la nutrizione, l’idratazione e la ventilazione assistita come TSV.
Il CNB arriva a questa definizione così restrittiva rifacendosi a ciò che scrive la Consulta: «La declaratoria di incostituzionalità attiene così, “in modo specifico ed esclusivo, all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza”».
Il problema sta nel fatto che “trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza” è una locuzione che può essere interpretata in modo restrittivo, come ha fatto il CNB, o estensivo come è già stato fatto da alcuni giudici (Corte d’Assise di Massa del 27.07.2020; Corte d’Assise d’Appello di Genova 28.04.2021) e come potrebbero fare in futuro altri giudici disinteressandosi di cosa abbia detto il CNB, dato che si tratta solo di un parere non certo vincolante. L’interpretazione di questo criterio, nella prassi giudiziaria, è già estensiva perché, come notano i sottoscrittori del parere di minoranza, altrimenti si cadrebbe in una ingiusta discriminazione: permesso il suicidio assistito a chi, ad esempio, è dipendente dalla ventilazione assistita e negato al paziente oncologico.
Detto tutto ciò, il parere del CNB è eticamente condivisibile? Dipende dal fine perseguito da ogni sottoscrittore di maggioranza. Dato che, potenzialmente, questa definizione verrà usata per aiutare le persone a togliersi la vita, occorre verificare il fine perseguito da ogni membro del CNB che ha approvato il parere. Si danno due ipotesi. La prima: il singolo firmatario ha voluto dare questa definizione (fine prossimo lecito: individuare cosa realmente sia un TSV) per facilitare il suicidio assistito (fine remoto illecito). Sarebbe una collaborazione formale al male. Questa ipotesi è residuale, quasi puramente accademica, dato che la definizione del TSV è assai restrittiva. Se si fosse voluto davvero facilitare l’aiuto al suicidio il criterio sarebbe stato interpretato in modo più ampio (vedasi il parere di minoranza).
Seconda ipotesi: impossibilitati a cestinare la sentenza della Consulta, si è cercato di dare una definizione restrittiva (fine prossimo lecito) al fine di limitare i danni (fine remoto lecito). La definizione data dal CNB è oggettivamente restrittiva rispetto ad alcune interpretazioni già fornite dai giudici: dunque realmente restringe l’ambito di applicazione della sentenza ingiusta della Consulta. Ogni membro del CNB che ha perseguito questa finalità limitante il male ha compiuto un’azione moralmente lecita, a patto che, sempre per evitare collaborazioni materiali illecite, eviti lo scandalo (cfr Evangelium vitae, n. 73) comunicando erga omnes la propria contrarietà ad ogni forma di aiuto al suicidio. Questa comunicazione può essere realizzata anche al di fuori del parere del CNB, ma rimane doverosa.
La volontà di circoscrivere l’applicabilità del criterio riferito ai TSV è provata anche dall’interpretazione della sentenza della Consulta, proposta dalla maggioranza dei membri. Secondo costoro la Consulta, nel depenalizzare parzialmente il suicidio assistito, si sarebbe orientata ad una tutela della vita. La realtà è ben diversa. Appare evidente che, se i giudici della Corte costituzionale avessero avuto veramente a cuore la vita delle persone, non avrebbero permesso l’erosione del portato penale dell’art. 580 del Codice penale che punisce l’aiuto al suicidio. Il bilanciamento tra autonomia decisionale e bene della vita da tutelare, così come argomentato in sentenza, è solo un trucco retorico dei giudici per far digerire ciò che è massimamente indigesto come il suicidio assistito.
In sintesi, il parere del CNB, volto a limitare la portata ingiusta della sentenza della Consulta, è moralmente accettabile, seppure la sua efficacia pratica sarà probabilmente nulla. A breve, infatti, la stessa Corte costituzionale si pronuncerà sulla legittimità costituzionale del criterio che riguarda i TSV e dubitiamo che si farà influenzare dall’impostazione restrittiva proposta dal CNB.
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Suicidio, la Consulta apre all’obiezione di coscienza. Che non reggerà
La Corte Costituzionale ha pubblicato la sentenza sull’incostituzionalità di parte dell’articolo 580 del Codice penale. A determinate condizioni, l’aiuto al suicidio non è più penalmente perseguibile. Eppure la Consulta ha riconosciuto l’obiezione di coscienza a favore dei medici (ma non della struttura ospedaliera), che però è destinata a essere spazzata via, causando l’eutanasia anche della libertà dei medici.