Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Suicidio assistito

Sostegni vitali, l’ultima lotta (al rovescio) dei Radicali

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Dal caso di Massimiliano Scalas in poi, Cappato & Co. cercano di eliminare il requisito dei «trattamenti di sostegno vitale», posto dalla Consulta come precondizione per accedere al suicidio assistito. La solita strategia mortifera che si basa su un pretesto.

Editoriali 02_07_2024

Gutta cavat lapidem. La goccia scava la roccia. La roccia è la tutela della dignità personale e la goccia è quella dei radicali che non mollano sul suicidio assistito. Di recente, su un aspetto particolare si stanno accanendo: eliminare, per accedere all’aiuto al suicidio, il requisito dei «trattamenti di sostegno vitale», voluto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 242/2019 (qui un approfondimento).

La battaglia su questo requisito è iniziata con il caso Massimiliano Scalas, affetto da sclerosi multipla e morto tramite suicidio assistito in Svizzera nel dicembre del 2022. Felicetta Maltese, Chiara Lalli e il radicale Marco Cappato si autodenunciarono per aver accompagnato Massimiliano oltre i confini italici. Il Gip Agnese De Girolamo, lo scorso 17 gennaio, ha, come di consueto, sollevato questione di legittimità costituzionale riguardo al criterio dei trattamenti di sostegno vitale perché discriminatorio: chi è tenuto in vita da questi trattamenti può morire e chi invece non è tenuto in vita da nessun macchinario o mezzo farmacologico non può morire.

Poi c’è stato il caso di Martina Orpelli, paziente tetraplegica a cui l’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina (Asugi) di Trieste negò l’accesso alla pratica del suicidio assistito proprio perché mancante del requisito di cui sopra. Andò diversamente per la signora Anna, affetta da sclerosi multipla: l’assistenza alla persona e l’aiuto alla respirazione con il ventilatore meccanico nelle ore notturne furono considerati trattamenti di sostegno vitale e quindi Anna riuscì a trovare la morte nel novembre scorso.

Il requisito dei sostegni vitali pone ai radicali un duplice problema. Il primo lo abbiamo già evidenziato: il depresso che vuole morire ma che non è tenuto in vita da nessun presidio medico viene escluso dalla pratica dell’aiuto al suicidio. Secondo problema: un’Asl o un giudice possono considerare le terapie XY come mezzi di sostegno vitale e un’altra Asl o un altro giudice possono essere di parere opposto. Occorre quindi tagliare la testa al toro ed eliminare questo requisito. La strategia per giungere a questo scopo passa soprattutto dai tribunali: tempestare la Consulta con ricorsi al fine di farle cambiare idea su questo requisito specifico.

Ecco allora approfittare di tutte le occasioni propizie per tagliare il traguardo. Ed ecco dunque l’ennesimo caso-fotocopia di persone morte in Svizzera perché mancanti del requisito tanto contestato. Si tratta di Romano N. e di Elena Altamira. Il primo era affetto da una forma molto grave di Parkinson, tanto da costringerlo a vivere a letto. La seconda era malata terminale di cancro ai polmoni. Entrambi sono stati accompagnati da Cappato in Svizzera, dove si sono suicidati nel 2022, e in entrambi i casi quest’ultimo si è autodenunciato presso il Tribunale di Milano.

Questi due casi presentano alcune particolarità giuridiche in riferimento al requisito che stiamo qui trattando. La signora Altamira aveva rifiutato di essere tenuta in vita nel suo ultimo scorcio di esistenza da qualsiasi trattamento particolare. Il signor Romano era invece aiutato a vivere da alcuni presidi, ma li giudicava non appropriati, li qualificava dunque come accanimento terapeutico.

Il Gip di Milano Sara Cipolla, dopo che il caso fu archiviato ma poi dalla stessa Cipolla riaperto, ha chiesto alla Consulta di valutare la legittimità costituzionale del requisito dei trattamenti di sostegno vitale sia perché potrebbe essere discriminatorio per i motivi prima illustrati sia alla luce della seguente considerazione: se tali trattamenti configurassero accanimento terapeutico sprofonderemmo in un paradosso. Il paziente, che vorrebbe morire, sarebbe costretto, per soddisfare i requisiti voluti dalla Consulta, a sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale che però configurerebbero accanimento terapeutico. Dunque dobbiamo permettere di far accedere al suicidio assistito anche coloro che rifiutano un trattamento salvavita «non perché inutile, ma perché espressivo di accanimento terapeutico secondo la scienza medica e non dignitoso secondo percezione del malato», dichiara il Gip.

In sintesi, secondo questa linea, il requisito dei trattamenti di sostegno vitale deve essere cassato sia perché non c’è giudizio omogeneo su quali trattamenti rientrino in tale categoria, sia perché discriminerebbe chi vuole morire e non è tenuto in vita da nessun presidio particolare, sia perché tali trattamenti possono in alcuni casi qualificarsi come accanimento terapeutico.

Quest’ultima motivazione, al pari delle altre, è pretestuosa. Infatti per accanimento terapeutico intendiamo un trattamento inefficace, ossia sproporzionato rispetto ai fini. Ora, la Corte costituzionale fa riferimento a trattamenti di sostegno vitale. Questa espressione può ricomprendere due tipologie di trattamento. La prima: un trattamento salvavita. In questo caso, dato che il trattamento è appunto salvavita, è sempre efficace, è sempre proporzionato (eccetto nel caso in cui – più teorico che reale – il trattamento provochi un dolore fisico impossibile da sopportare). Seconda tipologia di trattamenti: cure non salvavita, ma che permettono di mantenere in vita una persona più a lungo e per un certo tempo. Nel caso della signora Elena, se è paziente terminale, non è predicabile l’esistenza di un trattamento salvavita a suo favore. Molto probabilmente si faceva riferimento invece a cure che avrebbero potuto prolungare la sua aspettativa di vita, ma che lei decise di rifiutare. Ora, questo tipo di trattamenti può effettivamente configurare accanimento terapeutico, ma – ed è questo il punto – ciò non legittima l’aiuto al suicidio, ma solo la cessazione di questi trattamenti perché inutili o addirittura dannosi.

Dunque, i radicali usano il pretesto dell’accanimento terapeutico per accedere al suicidio assistito più facilmente e con tanto di benedizione della Consulta.



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