Spiragli di pace a Gaza, Hamas accetta le condizioni
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Hamas consegnerebbe trenta ostaggi durante un periodo di cessate il fuoco di 60 giorni, in cambio della scarcerazione da parte di Israele di prigionieri palestinesi e aiuti umanitari a Gaza.
- Venerdì della Bussola con monsignor Haddad (Siria) di Stefano Chiappalone
Il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza tra Hamas e Israele potrebbe essere siglato nei prossimi giorni, o al massimo tra qualche settimana. Lo ha fatto intendere chiaramente il neoeletto presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che rispondendo alla domanda di un giornalista, ha detto: «Netanyahu sa benissimo che io voglio la fine della guerra». Anche il gruppo terroristico di Hamas ha dichiarato la propria disponibilità ad un accordo. Tutto dipende, però, dal governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, che nonostante le parole chiare e inequivocabili del suo maggiore alleato e la disponibilità di Hamas, continua a bombardare in modo indiscriminato sulla Striscia e su una popolazione ormai allo stremo. Ma l’ipotetico accordo potrebbe anche non essere dietro l’angolo. Netanyahu, infatti, non ha interesse ad accontentare adesso Joe Biden, consapevole che tra poco più di un mese non sarà più lui l'inquilino dello Studio Ovale.
Secondo la proposta che circola, Hamas consegnerebbe trenta ostaggi durante un periodo di cessate il fuoco di 60 giorni, in cambio della scarcerazione da parte di Israele di prigionieri palestinesi e di un maggiore ingresso di aiuti umanitari a Gaza. Proprio la scarsità degli aiuti fatti filtrare da Israele sta creando seri problemi agli abitanti della Striscia. La carestia ormai bussa alle porte. Circa il 47% della popolazione, per lo più bambini, è colpita dalla crisi umanitaria. E i morti hanno ormai raggiunto le 44.835 unità, tra cui 17mila bambini, mentre i feriti sono 106.356. Ogni giorno, mediamente, circa dieci bambini rimangono mutilati, mentre di oltre 21mila non si hanno notizie e si suppone che siano sepolti sotto le macerie o seppelliti in fosse comuni. È stato ucciso, in questi giorni, da un cecchino israeliano anche un medico chirurgo, l'ultimo che operava nel nord di Gaza. Si chiamava Saeed Joda e si stava spostando tra il Kamal Adwan Hospital e il nosocomio di Al-Awda. È morto dopo appena una settimana dal bombardamento di Jabaliya, dove aveva perso la vita il figlio Majd, che stava cercando tra le macerie i cugini uccisi in un precedente attacco.
Hamas avrebbe accettato come condizioni dell’intesa non solo la liberazione degli ostaggi, ma anche una pur "temporanea" presenza militare israeliana a Gaza, nel corridoio Filadelfia, l'arteria che corre lungo il confine con l'Egitto e nel corridoio Netzarim che divide la Striscia a metà. In precedenza, il gruppo terroristico di Hamas aveva sempre rifiutato simili concessioni agli israeliani.
Che qualcosa di positivo stesse accadendo lo si è capito dall’accelerazione impressa agli incontri tra i mediatori, e in particolare, dalle dichiarazioni da parte di Israele. Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha infatti affermato che esiste una possibilità, in questo momento, di raggiungere un nuovo accordo che permetta il ritorno di tutti gli ostaggi, compresi i civili americani. Il capo del Mossad, David Barnea, si è recato a Doha per incontrare il primo ministro qatariota Mohammed Al Thani per discutere dell'eventuale accordo per il rilascio degli ostaggi.
Ma anche la diplomazia americana è sempre più attiva nello scacchiere mediorientale, in particolare, per il cessate il fuoco tra Israele e Gaza. «Nei colloqui con il presidente Erdogan e con il ministro Fidan abbiamo parlato della necessità che Hamas accetti l'accordo di Gaza in modo da porre fine a tutto questo», ha affermato Antony Blinken, dopo il suo incontro con il ministro degli esteri turco Hakan Fidan ad Ankara. A Tel Aviv è arrivato anche il consigliere per la Sicurezza, Jake Sullivan, per tessere le fila del cessate il fuoco e mentre quest’ultimo incontrava il primo ministro israeliano, alcuni manifestanti si sono riuniti nei pressi del consolato degli Stati Uniti a Tel Aviv per chiedere la liberazione degli ostaggi. «Il governo Netanyahu ci ha abbandonato, il nostro governo ha abbandonato gli ostaggi e noi vogliamo che si faccia tutto il possibile per riportarli a casa», ha detto Shai Moses, uno dei manifestanti, che da mesi protesta contro l'esecutivo.
Anche dal Vaticano si è alzato un grido di pace per Gaza. Dopo l'incontro tra papa Francesco e Abu Mazen, il presidente dell'Autorità Palestinese ha avuto un colloquio con il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato. Durante il confronto è stato sottolineato l'importante contribuito della Chiesa nella società palestinese e in particolare a Gaza; è stato inoltre auspicato che quanto prima venga siglato il cessate il fuoco e liberati tutti gli ostaggi. «Entro una settimana, prima di Natale, credo che ci sarà un accordo per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas. È una mia valutazione», ha dichiarato Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa, che faceva parte della delegazione palestinese ricevuta dal Papa.
«Quando l’operazione militare terminerà, come sarà la vita a Gaza? Chi ci sarà? Ci vorranno anni per riedificare, e sono sicuro che il confine con Israele rimarrà chiuso; quindi, qual è il futuro per questa gente?», si è chiesto il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, che a giorni sarà nella Striscia per incontrare i cristiani che vivono nell'enclave.
Ma di pace si dovrebbe parlare anche in Cisgiordania dove la situazione rischia di precipitare. A Betlemme è stato realizzato il presepe ora esposto nell'Aula Paolo VI in Vaticano. È un messaggio di pace da parte degli artigiani della città che ha dato i natali a Gesù. Una pace che rimane, però, una chimera. Spesso la città viene isolata dai militari israeliani. Non si può uscire né entrare. Ogni accesso è chiuso con blocchi di cemento e controllato da pattuglie armate. L'isolamento dura ore. I militari si giustificano affermando che sono a "caccia" di terroristi. Itamar Ben-Gvir, ministro del governo Netanyahu, da parte sua, ha dichiarato che sono necessari nuovi posti di blocco per garantire spostamenti sicuri ai coloni.
Libertà per i coloni ultraortodossi israeliani, ma oppressione per i palestinesi che continuano a vedersi confiscare le proprie case e i terreni. È quanto accaduto ai cittadini di Qatana e Biddu, a nord di Gerusalemme, dove gli abitanti si sono visti espropriare qualcosa come 54 dunam (54000 metri quadrati) di terra per l'espansione della colonia Har Adar.