Sindrome italiana: giustizia politica contro Trump
Ascolta la versione audio dell'articolo
La sentenza di primo grado di colpevolezza di Donald Trump dimostra che gli Usa sono diventati come l'Italia: uso politico della giustizia. Ma anche il rischio di una guerra civile fra due sistemi opposti.
La condanna in primo grado decretata dal tribunale dello Stato di New York nei confronti di Donald Trump è un episodio di enorme gravità, che proietta ombre cupe sulla campagna elettorale presidenziale statunitense e radicalizza ulteriormente la dialettica politica nel paese, già tesa ed estremizzata a livelli di guardia per la tenuta della democrazia.
Nonostante l'iter giudiziario sia ben lungi dall'essere concluso e le probabilità che a Trump venga inflitta in primo grado una pena detentiva siano complessivamente basse, questa inusitata situazione è passibile di produrre delle sollecitazioni sulla prassi istituzionale e sul clima sociale imprevedibili, e potenzialmente devastanti.
L'elemento che salta agli occhi se si considera la storia del procedimento giudiziario in questione, a somiglianza degli altri che pendono sull'ex presidente, è la evidente prevalenza delle motivazioni politiche su quelle di diritto. Tutta l'inchiesta, e il giudizio che ne è seguito, recano tracce inconfondibili di una giustizia contra personam, e della precisa volontà di colpire un avversario politico per cercare di espellerlo dalla scena.
Al di là del fatto che il comportamento addebitato a Trump (la falsificazione di documenti contabili per coprire il pagamento di denaro alla ex pornostar Stormy Daniels in cambio del suo silenzio su una relazione tra i due) sia considerato provato o meno, esso sarebbe in sé stato passibile soltanto di una sanzione amministrativa, mentre è stato considerato reato dal tribunale soltanto in base alla tesi che esso rientrasse nell'obiettivo di condizionare la campagna elettorale: una forzatura enorme che difficilmente sarebbe stata utilizzata e giustificata, se non contro un bersaglio da demonizzare a tutti i costi.
Si aggiunga a ciò non soltanto il fatto che il procuratore di Manhattan che ha istruito il caso, Alvin Bragg, è schierato con il Partito Democratico (questo è normale negli Stati Uniti, in quanto la carica è elettiva e a tutti gli effetti politica), e che è stato finanziato dall'organizzazione Open Society Foundation di George Soros, ma anche e soprattutto che pure il giudice nel processo, Juan Merchan, è stato un finanziatore delle campagne elettorali Dem, e che sua figlia Loren è titolare di uno studio di consulenza elettorale, Authentic Campaigns, pure affiliata allo stesso partito.
Che vi sia stato un accanimento partigiano contro Trump può essere negato soltanto da chi è ideologicamente schierato a prescindere contro di lui. E gli altri processi imminenti a suo carico non sembrano avere natura diversa: da quello sul suo presunto incitamento all'invasione del Campidoglio (episodio su cui le ombre di ambiguità e i sospetti di strumentalizzazione da parte dei Dem sono innumerevoli) a quello per la detenzione di documenti classificati, per il quale spicca la disparità assoluta di trattamento tra lui e Biden. Quali che siano gli sviluppi politici dei prossimi mesi, questi attacchi potranno avere conseguenze irrimediabili: a causa di essi Trump potrebbe vedere indebolire il suo consenso elettorale, e perdere le elezioni; o, pur vincendole, essere costretto a governare perennemente azzoppato, sotto la spada di Damocle di una sempre possibile defenestrazione, o di una detenzione che, inflitta a un presidente in carica, assumerebbe effetti grotteschi e tragicomici agli occhi del mondo intero. Un eventuale rovesciamento del verdetto a lui sfavorevole in appello non cambierebbe ormai il danno gigantesco subito da Trump e dall'ordinamento democratico.
Tutta la strategia giudiziaria contro l'ex presidente dimostra ampiamente come, da quando il tycoon newyorkese è entrato in politica, la democrazia statunitense sia stata contagiata in forma molto severa da una vera e propria “sindrome italiana”: uno spregiudicato uso politico della giustizia attraverso il quale una coalizione tra apparati pubblici, organizzazioni politiche, élites economiche ad esse legate ed élites intellettuali-mediatiche cerca in ogni modo di espellere dal gioco politico un attore ritenuto un “corpo estraneo”, verso il quale si verifica una vera e propria “crisi di rigetto”.
Da tale punto di vista, le analogie tra il caso di Trump e quello di Silvio Berlusconi sono impressionanti. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte ad un leader che arriva alla politica dall'imprenditoria, che catalizza le simpatie di una larga parte di società lontana dalle classi dirigenti e diffidente verso esse, che viene demonizzato da quelle classi come un pericoloso eversore populista, e che si cerca di dipingere come un poco di buono. Nel caso statunitense, quella “crisi di rigetto” maturata da quasi un decennio assume caratteristiche ancor più inquietanti e preoccupanti.
In primo luogo, perché essa si traduce sempre più in una polarizzazione estrema che prefigura addirittura scenari da guerra civile proprio nel paese guida dell'Occidente: una destabilizzazione che inevitabilmente si ripercuoterebbe con esiti drammatici sugli interessi economici, sulla credibilità, sulla sicurezza di tutti i paesi liberaldemocratici.
In secondo luogo, perché essa configura un regolamento di conti interno a quella potenza proprio mentre è in atto il confronto serrato, su scala planetaria, tra spinte a una verticalizzazione globalista e tecnocratica del potere e resistenza dei principi rappresentativi e della sovranità popolare. Trump in questo momento è il leader riconosciuto di una posizione critica in Occidente rispetto a quella concentrazione di potere, e su dossier fondamentali, come quello della guerra russo-ucraina, sostiene posizioni fortemente eterodosse rispetto all'attuale linea delle classi politiche transatlantiche. Su tali temi cruciali il dibattito sarebbe fatalmente falsato e sbilanciato se egli fosse stritolato dalla macchina distruttrice della malagiustizia.
Infine, l'offensiva giudiziaria scatenata contro l'ex presidente e candidato repubblicano dimostra che anche il sistema costituzionale storicamente più solido ed equilibrato dell'Occidente stesso, quello che permette le maggiori garanzie alle libertà individuali e limita al massimo gli abusi giudiziari (a differenza di quello italiano e di molti stati europei) è esposto alle distorsioni e manipolazioni veicolate dall'ideologia, e può essere occupato manu militari da forze corporative e grandi potentati uniti in difesa dei loro privilegi contro ogni principio della costituzione stessa. E che quindi anche la democrazia statunitense è piombata in una crisi strutturale. Un segnale angosciante per chiunque desideri la sopravvivenza di ordinamenti liberali nel mondo.