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Scontri a Bologna, il 7 ottobre dei Giovani Palestinesi d'Italia

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Il capoluogo emiliano a ferro e fuoco durante il corteo (non autorizzato) del collettivo pro-Pal che ricalca la retorica jihadista e inneggia alla "Resistenza palestinese". Un episodio da non derubricare a cronaca o folklore. E una sigla, quella dei GPI, da non sottovalutare.

Attualità 10_10_2025
Photo Guido Calamosca / LaPresse

La sera del 7 ottobre, a Bologna, è cominciata con una voce che s’è alzata dal cuore della città. Sembrava un richiamo alla preghiera serale verso la Mecca, ma il muezzin improvvisato si stava solo rivolgendo ai Giovani Palestinesi d’Italia ripetendo il mantra che corre lungo lo stivale da un po’: «Free, free Palestine… From the river to the sea», lo slogan di Hamas che significa: «Palestina libera dal fiume al mare», quindi con Israele e gli israeliani eliminati.
Sono passati due anni esatti dalla strage di Hamas. Due anni dai 1200 morti, 250 ostaggi, dispersi, stupri di massa, sevizie il pogrom più grande subito dagli ebrei, e il primo in terra di Israele, ampiamente documentato da video degli stessi terroristi. E due anni dopo, in Italia, viene organizzata una manifestazione che commemora quel 7 ottobre consegnando la gloria ad Hamas.

A firmare la ricorrenza da osannare sono, appunto, i Giovani Palestinesi d’Italia. Un corteo di alcune centinaia di ragazzi che, a volto coperto da sciarpe e cappucci, hanno inneggiato a «Resistenza», «Intifada fino alla vittoria» e «Assassini! Bastardi!», tra canti vari in arabo, fumo e kefiah imperante.
Una manifestazione che non avrebbe dovuto esistere. Prefetto e questore l’avevano vietata, “per evidenti motivi”. Ma la piazza è stata comunque occupata. Il sindaco dem Matteo Lepore ha provato a cavarsela con un invito generico ai promotori a fare un passo indietro. Le opposizioni l’hanno definito un modo per lavarsi la coscienza mentre si prepara a conferire la cittadinanza onoraria a Francesca Albanese, la relatrice ONU che non intende condannare Hamas.

Quella di Bologna è stata una manifestazione violenta. Dal primo minuto, le provocazioni sono state calibrate, organizzate, pensate per incendiare la piazza e ottenere la reazione della polizia. «Fascisti, maledetti!», è il coro che s’è ascoltato senza soluzione di continuità contro gli agenti. Ma non c’erano solo i Giovani Palestinesi d’Italia. Sono arrivati presto anche i “rinforzi” dei collettivi della sinistra radicale cittadina e  dei centri sociali. Tra loro, Cambiare Rotta, il gruppo che da giorni occupa la facoltà di Fisica dell’Alma Mater. È lo stesso che ha festeggiato l’assassinio di Charlie Kirk pubblicando la sua foto a testa in giù con la scritta: «Meno uno». Al loro fianco, i militanti di Potere al Popolo. Una miscela esplosiva utile a incendiare la serata. E quando il sole ha cominciato a calare dietro i palazzi, la protesta si è mutata in scontro.

Prima le bottiglie, poi gli oggetti contundenti scagliati contro il cordone della polizia. Cassonetti trasformati in arieti, spinti come mura mobili contro le barricate degli agenti, le vetrine dei negozi prese d’assalto, le auto in sosta diventate bersagli. Un crescendo che ha trasformato le strade in un corridoio di guerriglia urbana. L’ordine dall’alto era non reagire, e il bilancio ha visto diversi agenti feriti. Borsello d’ordinanza a tracolla e le tute scialbe, a devastare.

Ma chi sono davvero i Giovani Palestinesi d’Italia? Dietro la sigla GPI c’è un collettivo politico-attivista diffuso in varie città – Bologna, Milano, Torino, Roma – che ha costruito gran parte della sua forza sulla rete. È difficile capire se tra loro ci siano davvero solo palestinesi. Intanto, sono gli stessi che hanno contestato il ministro Bernini con cori violenti mentre accoglieva studenti palestinesi in Italia – un bel cortocircuito.

L’account Instagram dei GPI supera i 155mila follower e coordina capitoli locali, presidi, cortei e campagne. Sui canali social si definiscono parte integrante della “Resistenza palestinese”, adottano un linguaggio che ricorda quello delle vecchie sezioni del partito comunista, anche nei colori. Nonostante la grande visibilità online, lo “zoccolo duro” del gruppo supera di poco le duecento persone che poi si muovono in piazza. È lì che i GPI si uniscono a frange anarchiche e maranza (gli immigrati islamici di seconda generazione) – i primi per affinità ideologica, i secondi per appartenenza identitaria o semplice gusto del disordine.

Sono spesso accompagnati da realtà della sinistra antagonista come Potere al Popolo, Rifondazione Comunista e il Partito Comunista dei Lavoratori. A Bologna, in particolare, sono coadiuvati dai collettivi come il CUA (Collettivo Universitario Autonomo), legato a lotte studentesche e spazi autogestiti; Cambiare Rotta, di cui abbiamo già parlato, e OSA (Opposizione Studentesca d’Alternativa), che si dicono, sul proprio sito, Anticapitalisti, Antifascisti, Antisessisti e Internazionalisti.

Ma non è tutto qui. A livello internazionale, i Giovani Palestinesi d’Italia si rifanno al Palestinian Youth Movement (PYM), un’organizzazione transnazionale di giovani palestinesi e arabi. Socialista, anti-sionista e anti-imperialista, ha avuto un ruolo centrale nelle grandi proteste contro la guerra a Gaza negli Stati Uniti, dalle occupazioni universitarie (Columbia University) fino alle grandi manifestazioni di Washington e si muove in alleanza con sigle radicali come la Coalizione ANSWER – già protagonista delle mobilitazioni contro le guerre in Iraq, è tuttora in prima fila nelle piazze anti-imperialiste e in solidarietà con la causa palestinese.

I GPI hanno contatti con la Muslim American Society (MAS), organizzazione statunitense che diverse fonti e atti giudiziari descrivono come legata ai Fratelli Musulmani – definita Holy Land Foundation, un “braccio palese” della fratellanza negli Stati Uniti. 
In Italia, oltre alle collaborazioni con gruppi come Unione Democratica Arabo Palestinese, l’Associazione Donne Palestinesi in Italia e l’UCOII - Unione delle Comunità Islamiche in Italia, i GPI intrecciano rapporti con i sindacati.
Dal punto di vista organizzativo, non hanno bilanci pubblici. Operano finanziandosi con raccolte fondi e donazioni dirette. Fondi che servono a sostenere spese legali, logistiche e iniziative come la Global Sumud Flotilla. 

Sui loro canali social, già mesi fa scrivevano: «(…) la storia chiama a schierarsi senza ambiguità: o con la resistenza o con gli oppressori. Ogni esitazione equivale a un tradimento» e che «non basta limitarsi alla denuncia, serve un salto di qualità nella lotta!». La missione è raccontata in modo chiaro: «Ogni fucile imbracciato dai combattenti di Gaza, ogni pietra lanciata dai giovani di Jenin, ogni sciopero, ogni blocco popolare e ogni appello che arriva dalla Palestina ci indica la strada da seguire. La Palestina non è solo il simbolo della resistenza contro il sionismo: è politicamente il punto più avanzato dello scontro contro l’imperialismo occidentale, la linea del fronte da cui si irradia la lotta che dobbiamo portare anche qui». 

La piazza di Bologna del 7 ottobre non è allora solo cronaca nera o folklore politico. È un racconto che si scrive da sé: un anniversario di sangue trasformato in festa, una carneficina celebrata come resistenza. E non è affatto casuale. Se la resistenza in Italia ha visto fucilazioni sommarie, torture, stragi, esecuzioni di sacerdoti, fascisti, ma anche antifascisti non allineati e amministratori locali, richiamarsi oggi a quella “Resistenza” per giustificare il terrorismo di Hamas non è solo un’operazione retorica: significa normalizzare l’idea che la violenza indiscriminata – l’eccidio, la strage, la persecuzione – possa essere raccontata come atto di liberazione.

Le espressioni usate dai GPI hanno ricalcato fedelmente la retorica jihadista: elogio della violenza armata, richiami alla distruzione dello Stato di Israele, esaltazione di un massacro.  Proprio per questo, un avvocato ha deciso di presentare un esposto alla Procura distrettuale antiterrorismo di Bologna, dove si ipotizzano i reati di apologia e propaganda di idee con finalità terroristiche.



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