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MODA E TERRORISMO

La kefiah palestinese, boom di vendite nel mondo dopo il 7 ottobre

Indumento tradizionale del Medio Oriente, la kefiah palestinese diventa simbolo di lotta con la Grande Rivolta Araba del 1936-39. E dal '68 esce dal Medio Oriente, resa celebre da Arafat, per diventare un simbolo di rivoluzione anti-borghese in Occidente. Dal pogrom del 7 ottobre è tornata di moda.

Esteri 03_09_2025
Manifestazione palestinese a Roma (La Presse)

La kefiah, icona della causa palestinese, drappeggiata sulle spalle dei leader politici, sventolata come vessillo identitario, è stata anche un semplice indumento. È tra gli anni Sessanta e Settanta, che il suo intreccio in bianco e nero comincia a oltrepassare i confini della Palestina, approdando alle strade d’Europa, alle manifestazioni studentesche americane, sulle spalle dei politici d’Occidente. Per poi, lentamente, tornare a riposare nei cassetti e negli armadi di chi, col tempo, ha visto affievolirsi la fiamma della militanza.

Dopo il 7 ottobre 2023, quel tessuto è tornato prepotente al centro della scena. Non più soltanto ricordo o reliquia, ma protagonista di cortei e raduni in ogni angolo del mondo. A Ramallah come a Londra, nelle aule universitarie francesi fino ai campus dell’Ivy League e alle aule italiane, il bianco e nero della kefiah si mescola alle bandiere, ed è segno, gesto, dichiarazione, di blocchi e sit-in che paralizzano la vita accademica, le strade e porti dell’Occidente. Dalla Cisgiordania, molti palestinesi invitano esplicitamente, ed incessantemente, chi palestinese non è a indossarla, trasformandola in un atto tangibile di solidarietà alla causa.

Nael Alqassis, timoniere della storica azienda Hirbawi — l’ultima manifattura palestinese a produrre kefiah dal 1961 — ha raccontato al New York Times una storia di rinascita produttiva che ha il sapore di un’epopea commerciale simbolica. «Da ottobre 2023 — rivela — gli ordini dall’estero non hanno eguali nella nostra storia». A dicembre dello stesso anno, le richieste hanno toccato quota 150mila pezzi: una cifra capace di trasformare una piccola fabbrica di Hebron in un crocevia globale di complicità tessuta a mano.

La kefiah — o keffiyeh, kufiyeh, persino hatta — affonda le sue radici in Medio Oriente. Parente prossima della shemagh e della ghutra, nasce come scudo da sole e sabbia. L’etimologia resta avvolta nel dubbio: per alcuni significherebbe “di Kufa”, richiamo a quella città irachena che, forse, le diede i natali e che rappresenta uno dei centri più importanti dell’islam delle origini; per altri koufîah non è altro che cuffia in italiano, cofia in spagnolo, coiffe in francese. Una cosa è certa, la kefiah è tradizionalmente indossata dai contadini e dai beduini della penisola arabica. Si attorciglia intorno alla testa in campagna o nel deserto, per proteggersi dal sole, ma anche dal freddo. 

Il significato politico arriva solo durante la grande rivolta araba. Prima di questa data nessuno se ne interessava, motivo per cui restano poche tracce della sua origine. 

Nel 1929, in un clima di crescente tensione, la comunità ebraica di Hebron — presente ininterrottamente da generazioni — si trovò al centro di un’ondata di violenza feroce. Alcuni trovarono rifugio grazie al coraggio di famiglie arabe; altri, vennero ingannati dalle stesse e uccisi: si contarono 68 ebrei uccisi, decine di feriti e una scia di atrocità, tra cui violenze e stupri perpetrati contro le donne della comunità. Già quell’estate la kefiah divenne vessillo di battaglia: gli eventi del ’29 segnarono il passaggio da un conflitto soprattutto politico e diplomatico a un conflitto sempre più violento e comunitario.

Scacciati da Hebron e rifugiati a Gerusalemme, gli ebrei tentarono di tornare nel 1931, ma la Grande rivolta araba del ’36 li spinse via di nuovo. I leader che avevano fomentato le tensioni nel 1929 (come il muftì di Gerusalemme, Hajj Amin al-Husayni) furono anche tra i protagonisti della mobilitazione del 1936, per l’appunto. Fu allora che i capi insurrezionali ordinarono a tutti gli uomini palestinesi di indossare la keffiyeh: segno di unità e di mimetizzazione, così che i britannici non potessero distinguere ribelli e civili. Persino nei salotti urbani e tra le élite, il tarbush scomparve, sostituito dal tessuto annodato sulla fronte - il copricapo della resistenza, dei fedayn, talvolta issato come una bandiera.

La kefiah bianca e nera è tradizionalmente associata all’OLP, il principale movimento nazionalista palestinese fondato da Yasser Arafat, e alla prima intifada, la rivolta popolare palestinese contro l’occupazione israeliana scoppiata nel 1987.

Quella rossa e bianca, invece, è la kefiah scelta dai movimenti marxisti palestinesi, dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina in poi. È la stessa che, nelle ultime ore, è tornata sulle prime pagine dopo l’uccisione di Abu Obeida, il portavoce di Hamas che non ha mostrato mai il suo volto, apparendo soltanto avvolto in quel tessuto, lasciando scoperti appena gli occhi. Un’immagine costruita con cura: un richiamo a Emad Aqil, il comandante del braccio armato di Hamas, eroe per i palestinesi, responsabile di numerosi attentati contro soldati israeliani e informatori palestinesi, il nome di battaglia preso da uno dei seguaci del Profeta e ovviamente la kefiah rossa, non un dettaglio, ma una dichiarazione.

Negli anni Sessanta e Settanta, la kefiah uscì dai confini della Palestina e del Medio Oriente per conquistare la scena internazionale. Merito di Yasser Arafat che non se ne separava mai, piegandola con cura affinché disegnasse la sagoma della Palestina sulle spalle.  

Il tessuto bianco e nero riemerse potente nelle piazze dell’Occidente in fiamme: tra le barricate del Maggio ’68 e le marce contro la guerra in Vietnam, divenne la divisa simbolica dei giovani di sinistra che sfidavano l’imperialismo americano e il colonialismo. Più in generale divenne la bandiera dei giovani borghesi in guerra contro i padri. Ragazzi spesso cresciuti nell’agio la indossavano per dichiarare fratellanza con i palestinesi, trasformati nell’icona planetaria degli oppressi. Anche loro oppressi, contestavano istituzioni, tradizione, cristianità, denunciando “sessuofobia e patriarcato” come pilastri marci della società. Intanto, nelle periferie europee, giovani di origine arabo-musulmana la sceglievano come vessillo d’appartenenza.

Alla fine degli anni Sessanta, la kefiah varcò un’altra soglia simbolica: cominciò a essere indossata anche dalle donne. L’icona di questa trasformazione fu Leila Khaled, militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, immortalata nel 1969 con una kefiah stretta attorno al capo e un fucile AK-47 tra le mani, dopo aver organizzato il dirottamento di un aereo di linea americano. Quell’immagine spezzò le barriere di genere e incitò centinaia di giovani donne a indossarla come sciarpa di battaglia. Ma ebbe anche un effetto collaterale potente: in gran parte dell’Occidente, divenne il marchio visivo della militanza armata, legata a una parola che allora cominciava a risuonare ovunque — terrorismo

Sono gli anni dell’attentato palestinese di Fiumicino che provocò la morte di 13 passeggeri e 138 feriti. La kefiah allora è fissa in tv e paradossalmente finisce per attraversare anche i corridoi diplomatici e palazzi di governo. In Italia, la sua notorietà crebbe quando il leader palestinese fu fotografato accanto a numerosi esponenti politici, tra cui Giulio Andreotti, ritratto anch’egli, nel 1988, con una kefiah bianca a Palmira, in Siria. Ma anche Fidel Castro e Nelson Mandela.

Se la cantante Madonna s’era fatta fotografare mentre indossava la kefiah negli anni ’80, fu nel 2001 che lo stilista belga Raf Simons la porta in passerella inserendola nella collezione intitolata “Riot Riot Riot” (Rivolta Rivolta Rivolta): e i critici la definirono, “terrorist chic”. Lo stilista franco-belga Nicolas Ghesquière la ripropose per Balenciaga nella collezione autunno/inverno del 2007/08 chiamata “Traveller”, e convinse la rivista di moda americana W Magazine a collocarla tra i dieci accessori della stagione. Lo stesso fece Isabel Marant. Il collettivo queer-musulmano GmbH ha presentato la collezione “Untitled Nations” durante la Paris Fashion Week 2024 con una giacca rossa ispirata al disegno della kefiah, mentre la supermodella Bella Hadid ha indossato un abito vintage realizzato con tessuto kefiah alla 77ª edizione del Festival di Cannes in solidarietà alla causa palestinese. All’inizio del decennio, una kefiah con la Stella di David fece arrabbiare la rapper anglo-palestinese Shadia Mansour, che compose una canzone allora una canzone: «Alza in alto la kefiah, La kefiah, la kefiah araba, Alzala per Bilad al-Cham, una kefiah araba rimane araba».

Secondo Pierre Valentin in Comprendre la révolution woke (Gallimard, 2023), il wokismo fiorito nei campus americani rappresenta l’erede paradossale della sinistra di fine Novecento. È un’ideologia che legge le società occidentali come strutture dominate da gerarchie di potere e quindi da demolire. Dopo il 7 ottobre, questa visione si è schierata, quasi naturalmente, con Gaza contro Israele. Così, nelle università di mezzo mondo, la kefiah è tornata ad avvolgere i colli degli studenti, segno visibile di un’alleanza politica e simbolica che unisce piazze lontane e cause percepite come comuni.

Un manifesto rivoluzionario di stoffa cucito tra le pieghe dell’alta moda per confermare che l’abito fa il monaco.