Il Piano Trump, scommessa per isolare l'Iran
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Il vero fatto nuovo del piano Trump, rispetto alla originaria impostazione degli "Accordi di Abramo", sta nel coinvolgimento di Paesi considerati fino a poco tempo fa irrimediabilmente lontani da prospettive di pace stabile con Israele.

Il piano di pace per Gaza presentato da Donald Trump in occasione della visita di Benjamin Nethanyau a Washington non è una soluzione improvvisata, ma rappresenta la coerente continuazione di una politica che il presidente statunitense sta portando avanti da anni – fin dal suo primo mandato – sulla questione mediorientale: la linea degli "Accordi di Abramo", il cui primo nucleo venne firmato nel 2020.
La strategia che orienta questa politica è molto chiara: favorire una convergenza tra Israele e i principali paesi arabi e musulmani sunniti, giungendo a un pieno riconoscimento reciproco e all'istituzione di relazioni diplomatiche e accordi economici che conducano alla costruzione di un'area di pace, sviluppo e cooperazione tra Medio Oriente, Maghreb e Asia centrale. E isolando il regime degli ayatollah di Teheran, che negli ultimi decenni è stato il principale agente di destabilizzazione e violenza in tutta quella parte del mondo, direttamente attraverso la minaccia nucleare e indirettamente attraverso i gruppi islamisti radicali da esso finanziati e sostenuti, come innanzitutto Hamas e Hezbollah.
Nelle ultime settimane l'atteggiamento dell'inquilino della Casa Bianca rispetto agli ultimi sviluppi del conflitto è stato presentato dal coro dei media e degli osservatori "trumpofobi" occidentali come l'acquiescenza pura e semplice verso la linea del governo israeliano, e una via libera a qualsiasi progetto di ri-occupazione più o meno a tempo indeterminato del territorio di Gaza.
Ora, la presentazione del piano di pace, e ancor di più la convergenza che su di esso si è verificata da parte di molti e diversissimi soggetti, dimostrano – come se ce ne fosse ancora bisogno dopo la fine della "guerra dei dodici giorni" tra Gerusalemme e l'Iran - che Trump negli ultimi mesi ha sempre saldamente tenuto la barra del timone del suo progetto di politica estera per l'area mediorientale e i suoi dintorni, e che, nonostante il precipitare degli eventi, egli si è sforzato di mantenere in piedi e consolidare una rete di interessi convergenti.
La struttura estremamente particolareggiata del piano è un indice inequivocabile della ricerca di quel "punto di caduta" in grado il più possibile di scongiurare future crisi e radicalizzazioni: la restituzione immediata di tutti gli ostaggi israeliani; l'isolamento, il disarmo e l'esclusione definitiva di Hamas da ogni futuro politico nella Striscia e nei territori arabi palestinesi, bilanciato solo dalla promessa dell'incolumità per i suoi membri e dal rilascio di un cospicuo numero di prigionieri detenuti oggi in Israele; il ritiro graduale delle forze militari israeliane, in corrispondenza con il disarmo e la neutralizzazione dei suoi nemici; la formazione di un governo provvisorio "tecnico" e "apolitico" a Gaza, con la supervisione di un Board of Peace internazionale, incaricato anche di favorire la ricostruzione e lo sviluppo economico della zona; l'esclusione di ogni trasferimento forzato della popolazione. Tutto questo smentisce ogni "leggenda nera" sulle reali intenzioni di Trump, e delinea lo stretto, ma plausibile percorso verso un superamento strutturale dei motivi di conflitto.
Ma, soprattutto, il segno del solido fondamento della strategia di pace del presidente americano è, come si accennava sopra, l'adesione ampia e diversificata che la sua proposta di piano ha subito ottenuto: ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania, India si sono aggiunti pareri positivi molto meno prevedibili, come, in particolare, quelli della Turchia e del Qatar, considerati entrambi a lungo sponsor della Fratellanza Musulmana e, in modo più o meno diretto, "patroni" di Hamas; così come, accanto a quello di Nuova Dehli, quello del Pakistan, spesso considerato infiltrato profondamente dall'islamismo radicale.
Il vero fatto nuovo del piano, rispetto alla originaria impostazione degli "Accordi di Abramo", sta proprio in questo coinvolgimento di paesi considerati fino a poco tempo fa irrimediabilmente lontani da prospettive di pace stabile con Israele. Un allargamento della base negoziale confermato dal parere positivo manifestato anche dall'Autorità nazionale palestinese, e persino dai primi apprezzamenti e dalle prime esplicite dissociazioni da Hamas che vengono da autorità amministrative e della società civile di Gaza stessa, espresse in una lettera indirizzata nei giorni scorsi al presidente statunitense.
La politica estera trumpiana, tradizionalmente fondata sul pragmatismo e sull'approccio bilaterale ai negoziati, ha costruito un consenso ulteriormente ampliato alla sua proposta di "normalizzazione" con la implicita o esplicita promessa che tutti gli attori dell'area ne trarranno benefici. E ha ulteriormente isolato e reso irrilevante il regime di Teheran, mettendo ciò che rimane di Hamas e degli altri gruppi islamisti destabilizzatori letteralmente con le spalle al muro, senza altra via d'uscita che non sia la resa e l'abbandono del campo o un martirio che essi potrebbero inseguire, ma che, è evidente, non avrebbe praticamente alcun esito politico.
Ora si dirà, certo, che il piano trumpiano è ancora soltanto un'ipotesi, appunto, fino a che i miliziani di Hamas non lo accettano, e che il suo rifiuto, che appare al momento in cui scriviamo purtroppo ancora probabile, potrebbe risolversi all'opposto in un nuovo, finale, incrudelimento del conflitto, forse anche con l'intervento nuovamente dell'Iran e degli Houthi yemeniti. Teheran potrebbe tentare il tutto per tutto a Gaza per riprendere in qualche modo un ruolo nel contesto regionale e provare a disarticolare la confluenza per la pace, in un momento in cui la sconfitta cocente subita nei mesi scorsi rende agli ayatollah impossibile esercitare il ricatto nucleare e i suoi proxy in Libano sono stati messi rudemente in un angolo: scommettendo, per esempio, che di fronte ad un riacutizzarsi della guerra il riallineamento di Ankara e Doha si riveli fragile ed effimero.
Resta, però, il fatto che con l'amplissima e trasversale adesione al piano Trump si è superato un decisivo punto di non ritorno, politico e simbolico: oggi le basi di una convivenza equilibrata in Medio Oriente esistono, e sono realistiche. Il sentiero è tracciato, e la sua attuazione dipende soltanto dalla rinuncia dei suoi più ostinati nemici a contrastarla, o dalla loro definitiva sconfitta.