Scenari incerti per Israele dopo la morte di Sinwar
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Appelli occidentali per indurre Tel Aviv a considerare l'uccisione del leader terrorista una vittoria sufficiente a fermare il conflitto. Ma nessuno può illudersi che la decapitazione di Hamas equivalga automaticamente al suo scioglimento.
Il leader di Hamas Yahya Sinwar è stato ucciso il 17 ottobre dalle truppe israeliane in combattimento nella parte meridionale della Striscia di Gaza «con un colpo di pistola alla testa», come ha confermato il medico legale che ha condotto l'autopsia, Chen Kugel, capo dell'Istituto forense israeliano. La Difesa israeliana ha pubblicato ieri un nuovo filmato in cui si vede un carro armato che spara contro una casa dove Sinwar si era rifugiato dopo uno scontro a fuoco con i soldati israeliani. L'esercito ha affermato che Sinwar è stato ucciso insieme a due miliziani nel sud della Striscia di Gaza quando un carro armato ha colpito l'edificio in cui si era rifugiato.
La morte di Yahya Sinwar ha destato reazioni diverse. Entusiasmo in Israele e compiacimento in Occidente. Nato nel 1962 a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, Siwar aveva trascorso dal 1989 al 2011 22 anni nelle carceri israeliane, dove ha imparato l'ebraico. Tra i fondatori dell'ala militare di Hamas, le Brigate al-Qassam, era considerato da Israele la mente dell'attacco del 7 ottobre 2023, in cui sono state uccise più di 1.200 persone tra militari e civili.
Sinwar era stato condannato da Israele a quattro ergastoli per il rapimento e l'uccisione di due militari israeliani e quattro palestinesi accusati di collaborazionismo ma era stato liberato nel 2011 in base a un accordo tra il movimento islamista e Israele per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, in cambio di prigionieri palestinesi. Da allora era nel mirino dell’intelligence israeliana e delle Israeli Defence Forces (IDF) . Specie dopo che nel 2017 divenne il comandante della Striscia di Gaza. Leader militare, lo scorso agosto era stato nominato capo dell'ufficio politico di Hamas a seguito dell'uccisione di Ismail Haniyeh in Iran, in un attacco israeliano.
Khalil Hayya, attuale comandante di Hamas a Gaza, ha dichiarato: «Sinwar ha incontrato la sua fine combattendo coraggiosamente, a testa alta, impugnando la sua arma da fuoco, sparando fino all'ultimo respiro, fino all'ultimo momento della sua vita». «Ha sfidato il nemico, non si è sottratto e per questo è motivo di orgoglio per il nostro movimento», recita un comunicato delle Brigate al-Qassam. «Il nemico è un illuso se pensa che assassinando i grandi leader come Sinwar, Haniyeh, Sayed Nasrallah, Al-Arouri e altri potrà spegnere la fiamma della resistenza o spingerla a ritirarsi» dalla lotta. «La nostra lotta non si ferma fino a quando la Palestina sarà liberata, l'ultimo sionista verrà espulso e tutti i nostri diritti legittimi verranno rispettati».
A Teheran il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha celebrato il leader di Hamas morto «come un eroe. Il martirio di comandanti, dei leader e degli eroi non intaccherà la lotta del popolo islamico contro l'oppressione e l'occupazione». Un alto funzionario di Hamas, Mahmoud Mardawi, ha affermato che dopo l'omicidio di Yahya Sinwar «la scelta di un successore non richiederà molto tempo, è una procedura naturale. I nostri termini riguardo ai negoziati per il cessate il fuoco non cambieranno dopo la morte di Sinwar».
Già in passato l’eliminazione di leader di gruppi terroristici e insurrezionali non ha coinciso con lo scioglimento o il crollo delle capacità operative di queste organizzazioni. Nel caso di Hamas (o di Hezbollah) la struttura politica e militare è troppo solida e ramificata perché si possa pensare che la morte dei leader ne annienti le capacità.
Non c’è dubbio che un anno di operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza abbiano pesantemente ridotto le capacità delle sue 5 brigate (con 24 battaglioni) di al-Qassam per un totale di 20 mila combattenti stimato nell’ottobre 2023.
Il fatto che Sinwar sia stato ucciso in combattimento dimostra che le operazioni a Gaza non sono ancora concluse e le milizie palestinesi sono ancora in grado di opporre una seppur ridotta resistenza. Migliaia di combattenti sono stati certamente uccisi o feriti in un anno di operazioni militari israeliane.
L’11 settembre scorso il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant annunciò che Gaza «non è più un'emergenza», rispetto all'escalation con gli Hezbollah libanesi. A dimostrazione che le milizie di Hamas erano allo stremo ha divulgato un messaggio intercettato dall’intelligence militare (Aman) che testimonierebbe le difficoltà di Hamas dopo un anno di martellamenti e combattimenti in cui il comandante della Brigata Khan Yunis di Hamas, Rafaa Salameh, descriveva a Sinwar e a suo fratello Muhammad le condizioni del suo reparto: «Abbiamo perso il 90-95% dei nostri razzi, il 60% delle armi portatili, il 65-70% delle armi anticarro. Peggio, abbiamo perso il 50% dei nostri uomini, fra martiri (cioè morti) e feriti, ma siamo rimasti col 25%, poiché l'altro 25% non ce la fa più nel fisico e nella mente».
Difficile dire se si tratti di un vero messaggio intercettato o di propaganda israeliana tesa a dimostrare che la battaglia a Gaza è vinta e si può dare inizio alla campagna militare in Libano contro Hezbollah. Gallant comunque quel giorno assicurava a Benjamin Netanyahu che «l'esercito è pronto a una vasta operazione in Libano».
Solo nelle prossime settimane sarà possibile comprendere se e con quali capacità Hamas sarà in grado di continuare la lotta dopo aver combattuto un anno nella Striscia di Gaza che le IDF contavano di espugnare in due o tre mesi.
Se non è il caso che Israele si faccia troppe illusioni circa l’impatto dell’uccisione di Sinwar su Hamas, neppure l’Occidente può puntare sulla morte del leader palestinese per indurre Israele a fermare la sua macchina bellica. Dagli Stati Uniti e da molte nazioni europee stanno infatti emergendo appelli a Tel Aviv affinché consideri la morte della “mente” dell’attacco a Israele del 7 ottobre 2023 come una vittoria sufficiente a fermare la guerra e a condurre in porto un negoziato per la liberazione degli ostaggi israeliani.
Da Tel Aviv non sembrano al momento emergere segnali in questa direzione e del resto Israele ha ucciso tutti i principali leader nemici, militari e politici, segno inequivocabile che non intende negoziare con nessuno e che l’obiettivo di mettere in sicurezza i suoi confini resta affidato alle armi.
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