Il presidente della Caritas in Libano racconta la sofferenza del suo popolo
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La guerra «è un colpo fatale per il Libano, dopo l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto del 2020». Ora gli sfollati interni sono centinaia di migliaia e i morti più di 2300. Parla padre Michel Abboud, presidente della Caritas in Libano.
«È necessario rilanciare il processo di pace in Medio Oriente per rispondere alle aspirazioni del popolo palestinese, creando uno stato indipendente, con Gerusalemme Est come capitale. Questa continua ad essere l'unica possibilità per la sicurezza e la stabilità nella regione». È quanto dichiarato dal Segretario generale del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), Nayef Falah Mubarak Al Hajraf, al primo vertice tra l’Unione Europea e i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo. L’incontro si è tenuto, ieri 16 ottobre, a Bruxelles, ma mentre nella capitale belga si dibatteva, a Gaza e in Libano si continua a morire. Viene in mente il celebre detto latino: “mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata”.
«In Libano la situazione è veramente drammatica. La gente ha paura, è in preda al panico. Un esercito di sfollati è arrivato dal sud, senza portare nulla con sé, se non qualche indumento». A parlare con la Nuova Bussola Quotidiana è il carmelitano, padre Michel Abboud, presidente di Caritas del Libano. Migliaia di famiglie hanno abbandonato le loro case, fuggendo dalle bombe e dalla guerra, alla ricerca di un posto sicuro.
«Molti pensano di emigrare. Tanti sono riusciti a lasciare il Paese. Quello che sta accadendo - prosegue padre Michel - è un colpo fatale per il Libano, dopo l’esodo di 200mila libanesi seguito all’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto del 2020». Quell'esplosione è ancora presente nella memoria dei libanesi. La deflagrazione provocò la morte di 235 persone, il ferimento di 6.500, e 300mila sfollati. I danni furono valutati in circa tre miliardi di dollari, mettendo in ginocchio l’intero Paese. Ad oggi, per quella tragica esplosione non è stato individuato alcun responsabile, e nessuno è stato chiamato a rispondere di quella strage. Ma a distanza di tre anni il Paese dei Cedri ricade nuovamente nel terrore. In particolare Beirut, città meravigliosa, ma dannata. «I nostri bambini e le nostre famiglie hanno bisogno di tutto. Non ci vergogniamo di chiedere aiuto. Si attendono che qualcuno stia loro accanto in questo momento buio. Migliaia di persone aspettano nei rifugi e noi siamo pronti a soccorrerli, se solo avessimo le risorse a disposizione».
In Libano, come nella Striscia di Gaza, la gente vaga da un luogo all'altro in cerca di un rifugio sicuro. Sono 2.309 le persone uccise dagli attacchi condotti in Libano dalle Forze di difesa israeliane dall'inizio del conflitto con Gaza, ma soprattutto nell'ultimo mese, quando si è intensificata l'offensiva contro Hezbollah. Un comandante di battaglione degli Hezbollah è stato ucciso ieri dall'esercito israeliano nel sud del Libano, nella zona di Bint Jbeil, insieme a decine di altri terroristi, e 150 obiettivi sono stati colpiti. Nella Striscia di Gaza il bilancio aggiornato fa registrare 42.438 morti e 99.250 feriti. Ieri, nel 376° giorno di guerra almeno dieci persone, tra cui bambini, sono rimaste uccise in un attacco delle forze aeree israeliane contro una scuola che ospitava sfollati di Jabalya, nel nord di Gaza.
«La guerra nel Paese dei Cedri ci ha colti di sorpresa – ammette padre Abboud –, ha spostato, da un luogo all’altro, la gente e appesantito i nostri cuori. Non ci saremmo mai aspettati che le cose potessero degenerare fino a questo punto». Le scuole sono state trasformate in campi profughi. Ci sono sempre più alunni e studenti che non riescono più a seguire gli studi. Ma c'è un nuovo problema che penalizza i libanesi. Il Ministero della Pubblica Istruzione ha emesso un provvedimento che obbliga le scuole ad accogliere tutti i bambini siriani che abbiano, o meno, un documento di riconoscimento. Una decisione che sta mettendo ancora più in crisi la popolazione libanese, che teme la naturalizzazione di oltre due milioni di siriani. I giovani non hanno un futuro. Sono demoralizzati. Molti quelli che hanno già abbandonato la loro terra e altrettanti sono pronti a scappare. In particolare i laureati. Separarsi dalla propria nazione è una "guerra" che non hanno scelto e tantomeno cercato o provocato. «Ci sono tanti giovani impegnati nella Chiesa e nel volontariato e vanno assolutamente sostenuti a tutti i costi - sottolinea padre Michel -, vanno formati e istruiti perché saranno loro i futuri evangelizzatori del Libano, attraverso i social media, strumenti che sanno usare molto bene». Anche gli ospedali sono al collasso, mancano le medicine e gli strumenti per poter fare degli interventi.
«Esprimo la mia vicinanza al popolo libanese che già troppo ha sofferto nel recente passato», ha detto papa Francesco nell’udienza generale dello scorso 25 settembre. I cristiani vivono momenti molto difficili. «Purtroppo Hezbollah aveva predisposto delle basi anche nei villaggi cristiani - dichiara padre Michel - e Israele ha bombardato questi paesi, provocando morti, feriti e tanti danni». Quelli che hanno scelto di rimanere nei loro villaggi continuano a pregare, nella speranza che la guerra si possa fermare. La maggioranza degli abitanti è costituita da famiglie miste, dal punto di vista ecumenico e interreligioso. È gente che non vuole essere coinvolta nella politica e nelle ostilità.
Mentre parliamo al telefono la linea è molto disturbata. All'improvviso si sentono due boati. Le bombe, probabilmente, sono cadute non lontano dal luogo in cui si trova il nostro interlocutore. «Ci stiamo ormai abituando. Viviamo in un continuo pericolo e offriamo tutto a Dio. Ribadisco che i libanesi non hanno voluto e non vogliono questa guerra. Siamo un popolo che vuole vivere in pace».
La pace è da tutti invocata, ma le armi hanno l’ultima parola. L’invio di armamenti ad Israele non si è mai interrotto, alimentando così l'arsenale di guerra e distruzione a disposizione dell'esercito con la Stella di Davide. «La pace è un mistero. Sin dai tempi di Caino ed Abele - dice il religioso -. Anche la vita di Gesù è iniziata con il sangue, con la strage di Erode. Lo stesso Gesù morì in croce, cui fece seguito il sangue dei martiri. Ma dopo la morte, c'è la risurrezione. Anche Maria, la madre di Gesù, ha vissuto nella sofferenza. Quante lacrime! Non c'è vita senza dolore. Gesù, infatti, disse ai suoi discepoli: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”», conclude padre Abboud.