San Giuseppe Moscati, uomo di scienza e carità
Medico controcorrente rispetto al positivismo imperante ai suoi tempi, san Giuseppe Moscati univa fede e acume scientifico. Viveva la professione come una vocazione, vedendo nell’ammalato un’immagine di Cristo sofferente. Paolo Gulisano descrive la figura del santo medico in un libro fresco di stampa.
«Medico, scienziato e benefattore dell’umanità, primario dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli. Giuseppe Moscati fu sempre orientato a Dio e al bene supremo dell’essere umano. Sin dall’inizio della sua carriera fu considerato un medico controcorrente nell’ambiente sanitario del suo tempo, così pervaso di positivismo scientifico e di idealismo filosofico. Ogni mattina, prima di recarsi in ospedale, si alzava presto per visitare gratuitamente a domicilio la povera gente. Nel suo studio privato, come onorario, vi era un cestino con la scritta: “Chi può, metta qualcosa. Chi ha bisogno, prenda”. Medico eccellente e caritatevole, insigne ricercatore e docente, uomo di grande dirittura morale e di fede profonda, giunse alla santità incarnando nell’ordinaria concretezza dell’esistenza quotidiana l’ideale del laico cristiano».
Così lo scrittore e medico Paolo Gulisano introduce la figura del santo medico nel suo volume Giuseppe Moscati (2022, pp. 167), che inaugura la nuova meritoria collana Un santo per amico delle Edizioni Ares.
Nato a Benevento nel 1880 da una famiglia molto devota, settimo di nove figli, Moscati è uno studente brillante, si laurea col massimo dei voti. Gli viene affidato l’incarico di libero docente di chimica fisiologica, ma egli preferisce le corsie dell’ospedale e la prossimità ai pazienti alla carriera accademica, facendo della «professione una palestra dell’apostolato». La morte della madre a causa del diabete lo spinge a cercarne una cura con ogni sforzo intellettuale, per cui è il primo medico a sperimentare con successo l’insulina.
Moscati non è uno ‘scapolo’, ma prende «la fermissima decisione di custodire la sua purezza», per cui «vive il suo celibato come una scelta di dedizione totale alla missione di medico». «Moscati ha un metodo, una via: l’ospedale è a misura d’uomo quando chi vi lavora rende visibile e credibile la motivazione profonda che guida i suoi gesti, secondo una scienza animata dal desiderio di aiuto, in autentico spirito di servizio, senza trascurare il fatto che il primo essenziale soccorso umano è quello che aiuta il malato a vivere con dignità la propria malattia e la propria cura».
Con l’eruzione del Vesuvio del 1906 si preoccupa in prima persona delle operazioni di evacuazione e d’assistenza degli ammalati nella succursale dell’ospedale a Torre del Greco, il cui tetto sarebbe crollato a breve. Quando scoppia l’epidemia di colera nel 1911 anche a Napoli, Moscati non ha timore «di entrare nelle case dei malati ad alleviare specialmente le sofferenze dei poveri, che gli stanno tanto a cuore quali immagini vive e toccanti di Cristo sofferente».
Durante le visite più delicate lo si sente invocare: «Cuore di Gesù, soccorrete i medici». Quando prega l’Ave Maria, invece, pensa per ogni espressione che la compone a un’immagine diversa della Vergine, da quella di Pompei quando ripete Dominus tecum a quella di Lourdes per l’Ora pro nobis peccatoribus. Nutre anche una devozione profonda per san Giuseppe, san Ciro, san Francesco d’Assisi, san Michele Arcangelo e il suo Angelo Custode.
Scienziato umile e acuto, ha il merito di aver intuito l’importanza del metabolismo dei polisaccaridi per la terapia diabetica. Significativi sono poi i suoi studi sulla biochimica della placenta, il cui contributo viene riconosciuto anche oltreoceano. Quando c’è da prender posizione, relativamente al dibattito sull’eugenetica, scrive con fermezza: «Il movimento moderno sull’eugenetica, partito da una concezione altissima, quella di proteggere la razza umana dalla decadenza, propone, per conseguire questo fine, mezzi di cui alcuni appaiono lesivi della libertà umana, o dell’etica della vita, o antifisiologici. Non è senza molto scetticismo che si apprendono tali proposte, per eliminare i deboli. Sono mezzi antiumani. I cosiddetti cromosomi sanno aggrupparsi meglio di quanto non ingiungano loro gli eugenisti».
Nel campo della diagnostica non c’è nessuno che lo eguagli: «Sembra che in questa sua spiccatissima facoltà di individuare con esattezza la presenza e l’evoluzione di una malattia, ci sia qualcosa di soprannaturale. Con un semplice sguardo, con una leggera palpazione effettuata tenendo l’occhio rivolto al cielo come per esserne ispirato, con una auscultazione, egli entra in possesso degli elementi necessari per formulare le diagnosi più difficili». Il decorso della malattia gli dà in effetti sempre ragione. Egli ha anche il carisma di leggere interiormente le anime; accanto alle medicine per la terapia invita alla preghiera e ai sacramenti, in particolare quanti sono lontani da una partecipazione assidua, poiché lo ritiene indispensabile tanto per la fortezza nella prova quanto per chiedere e ottenere la guarigione.
Moscati ha 35 anni quando l’Italia entra nella Grande Guerra. Primario all’Ospedale degli Incurabili, è pronto con la sua carità operosa a lenire le ferite del corpo e dell’anima di tanti giovani che arrivano dalla trincea nel reparto militare di cui assume la direzione. Egli è pronto a fronteggiare anche l’epidemia di spagnola che comincia a dilagare. «Io posso tutto in Colui che mi conforta», replica parafrasando san Paolo a quanti constatano il suo eccessivo affaticarsi. Il beato Bartolo Longo, promotore della costruzione del Santuario di Pompei per la sua devozione al Rosario, è un suo paziente e Moscati gli è accanto nel giorno della morte.
Moscati sa consolare, difatti «le famiglie che richiedono le sue prestazioni mediche sanno che con esse arriva anche il bene del conforto cristiano». Il 12 aprile 1927 Moscati, mentre è nel suo studio, alle tre del pomeriggio si sente male, si accascia sulla poltrona e muore. I poveri in studio, appresa la notizia, esclamano: «O Gesù! E ora, come faremo?». Nel rendere omaggio alla sua salma, l’arcivescovo di Napoli, il cardinale Alessio Ascalesi esclama: «Il professore non apparteneva a voi, ma alla Chiesa. Non quelli di cui ha sanato i corpi, ma quelli che ha salvato nell’anima, gli sono andati incontro quando è salito lassù». Canonizzato nel 1987, ha vissuto una ‘beatitudine’ di cui egli stesso ha scritto: «Beati noi medici tanto spesso incapaci ad allontanare una malattia, beati noi se ci ricordiamo che oltre i corpi abbiamo di fronte delle anime immortali, per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stesse».