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L’ESEMPIO

San Giuseppe Moscati, luce per i medici contro il Covid

Medico e docente universitario, la sua vita fu colma di azioni straordinarie. «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo», diceva il santo, che insegnava a trattare il dolore «come il grido di un’anima». L’esempio eroico di Moscati, a 140 anni dalla nascita, è ancora di grande attualità, specialmente per i medici impegnati nella lotta quotidiana contro il Coronavirus.

Ecclesia 15_04_2020

«Ero mors tua, o mors», «Sarò la tua morte, o morte», recitava un cartello fatto sistemare da san Giuseppe Moscati (25 luglio 1880 - 12 aprile 1927) nella sala delle autopsie. Una sala senza un segno del divino non poteva essere adatta a una didattica in cui la scienza medica si impastava armoniosamente con la fede. Moscati convocò tutti i suoi giovani assistenti sotto quella scritta, un versetto del capitolo 13 del Libro di Osea. Quel giorno non volle spiegare nessun caso clinico, solo ricordare la premessa fondante: la vittoria della vita sulla morte. «Il Figlio unigenito - commenta il biblista don Marco Pratesi - ci è stato donato dal Padre perché, lasciandosi avvelenare dal veleno della morte e neutralizzandolo nella sua carne, divenisse antidoto alla morte. La croce è morte della morte, secondo la fortissima espressione di Osea». In tempi di virus letali, ricordare l’insegnamento del professor Moscati ai suoi allievi, regala più di un brivido.

«La carità ha trasformato il mondo»

Siamo nell’Italia di inizio ‘900 e la situazione sanitaria è lontanissima da quella attuale: nessun sistema di welfare, solo visite costose e medicine a pagamento. È in quel contesto che si fa largo la figura di Giuseppe Moscati, di cui quest’anno cadono i 140 anni dalla nascita. Era nato nel 1880 a Benevento, ma è a Napoli che emergerà la sua fama di medico e docente universitario. Volle farsi medico - e ci riuscì a soli 23 anni con plauso e lode - perché, dalla finestra di casa, suo padre, magistrato, gli indicava l’Ospedale degli Incurabili, suggerendogli sentimenti di pietà per i sofferenti che vedeva entrare.

Al di là di una biografia colma di azioni letteralmente straordinarie (nell’epidemia di colera del 1911, incaricato di effettuare ricerche sull’origine del contagio, con consigli saggi e precise prescrizioni facilitò di molto il contenimento dei morti;  nel 1906, durante l’eruzione del Vesuvio, fece sgomberare l’ospedale di Torre del Greco, portando a spalle gli ammalati, un attimo prima che il tetto crollasse), al di là di tutto il suo genio e il suo eroismo, ciò che abitava il cuore di Giuseppe Moscati era la carità. E che la carità fosse la forza in grado di cambiare il mondo, il medico lo scrisse in una famosa missiva: «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo; solo pochissimi uomini son passati alla storia per la scienza. Tutti potranno rimanere eterni se si dedicheranno al bene». La lettera è poi divenuta una delle scene madri di “Giuseppe Moscati, l’amore che guarisce”, il film di Giacomo Campiotti in cui ad interpretare il santo è stato un ottimo Beppe Fiorello, e che, trasmesso da Rai1, ha sfiorato i 7 milioni di telespettatori.


Il dolore come "grido dell'anima"

C’è ancora una lezione per l’oggi. Il dottor Moscati insegnava a trattare il dolore «non come una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore». Ora, se pensiamo che una scrittrice di casa Einaudi, Fuani Marino, giorni fa invitava ad infischiarsi della salute degli anziani («Stiamo sacrificando cose imprescindibili come il diritto all’istruzione, la socialità, infine l’economia di un paese in nome degli over 75», queste le sue parole), capiamo bene quanto sia impellente, a iniziare dalle scuole, riscoprire la statura di un uomo come Moscati, e con lui il vero senso del dolore.


I “Discepoli 2.0” di Moscati

Che il lascito di Moscati stia ancora vivendo nel sacrificio di migliaia di medici, moltissimi dei quali contagiati a causa del loro servizio, è sotto gli occhi di tutti. Il dolore del malato “come grido dell’anima” è una suggestione che in questi giorni così dolorosi sembra si stia pian piano depositando nelle coscienze di tanti operatori sanitari. Intervistato da Radio Vaticana, il dottor Gabriele Tomasoni, primario nel Reparto di Rianimazione degli Spedali Civili di Brescia, così si è espresso: «Penso che la riflessione oggi dovrebbe essere: Gesù si è incarnato e il cristianesimo è concretezza, quindi è anche sofferenza. Queste situazioni ci dicono ancora di più che dobbiamo riconoscere nell’altro, e nella sofferenza, il Gesù che ci è davanti». Parlando poi del clima inedito che si va instaurando con i collaboratori, il primario bresciano aggiunge: «Sono saltati quei freni inibitori che a volte creavano imbarazzo nell’affrontare anche argomenti di fede. Sinceramente, ci si guarda nei corridoi e spontaneamente si dice: “Ma sai che io alla sera dico il Rosario?”. [..] A volte le situazioni drammatiche riscoprono quella che è l’umanità».

E che in fondo la malattia, come la nascita o la morte, contenga in sé una propria trascendenza lo scrive senza remora alcuna don Roberto Colombo in un articolo apparso sul sito della CEI (“Le virtù e il Covid 19”). «È religiosa la malattia - commenta il docente alla Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica - perché potentemente provoca (secondo l’etimo, “chiama fuori”, mette allo scoperto) il senso religioso dell’uomo: le domande più radicali [..] della vita, si infiammano quando ne sentiamo e temiamo la precarietà». Per questo la malattia «chiede di essere affrontata religiosamente. Da credenti e da non credenti». In questo la vita e le opere di Giuseppe Moscati hanno certamente lasciato una traccia. Poteva non essere così per un uomo che giornalmente si è nutrito dell’Eucarestia? E che è stato canonizzato da quel Giovanni Paolo II che della sua malattia ha fatto un baluardo per la difesa della vita?


I poveri di Napoli: «Piangiamo un santo»

Moscati è morto a soli 46 anni. Lo hanno pianto tutti, soprattutto quei bisognosi che “Il medico dei poveri” - così era chiamato a Napoli - visitava e curava gratuitamente. Innumerevoli le volte in cui ha rifiutato l’onorario o ha nascosto sotto il cuscino del paziente la somma per le medicine. «Il Professore non apparteneva a voi, ma alla Chiesa!». Così ammonì, rivolgendosi ai familiari di Moscati, il cardinale e arcivescovo di Napoli, Alessio Ascalesi, nell’omelia funebre. Che poi amorevolmente aggiunse: «Quando è salito lassù, gli sono andati incontro non quelli di cui ha sanato i corpi, ma quelli che ha salvato nell’anima». Nel registro delle firme posto all’ingresso di casa Moscati fu poi trovato questo pensiero: «Non hai voluto fiori e nemmeno lacrime. Noi però piangiamo, perché il mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di tutte le virtù, e i malati poveri… hanno perduto tutto».

Non fu un caso che a seguito di una nutrita e “ostinata” petizione popolare, a tre anni dalla sua morte, il 16 novembre 1930, i suoi resti furono portati nella splendida e centralissima Chiesa del Gesù Nuovo. Scortati da due imponenti ali di folla raccolta in preghiera.

L'omaggio degli allievi

Un anno prima della sua morte, gli allievi fecero giungere a Giuseppe Moscati, nel giorno di San Giuseppe, una lettera colma di amore e riconoscenza. L’omaggio struggente, scritto in occasione del suo onomastico, non è altro che la dimostrazione lampante che la cura all’insegna della carità lascia tracce di bene che il tempo mai potrà intaccare. «Anche quando il nostro capo sarà bianco come la neve - scrivevano gli assistenti di Moscati in una lettera che oggi andrebbe idealmente distribuita ai tanti medici e infermieri fiaccati dalla fatica - noi verremo a visitarla in questo giorno di S. Giuseppe, di cui ha copiato la vita; e verremo a confermarci alunni, a compiacerci con lei, a dirle ancora: “Ti vogliamo bene”; e porteremo nel passaggio d’oltre tomba, l’orgoglio di aver appreso da lei quella pratica d’apostolato di beneficenza, che ci rende cari tra gli uomini, desiderati dai sofferenti, benedetti dai poveri».