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GUERRA IN EUROPA

Rutte chiede alla Nato di prepararsi alla guerra, non si sa con che mezzi

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Prepararsi alla guerra è il motivo di fondo dei vertici Nato, dall'era Stoltenberg al nuovo segretario generale Rutte. Senza fare i conti con una realtà che indica: pochi reclutamenti e un'economia in crisi in tutta Europa.

Esteri 14_12_2024
Mark Rutte (La Presse)

«Ci stanno mettendo alla prova e il resto del mondo sta guardando. No, non siamo in guerra, ma di certo non siamo neanche in pace. Voglio essere chiaro: non c'è una minaccia militare imminente per i nostri alleati strategici, perché la NATO si è trasformata per tenerci al sicuro. La spesa per la difesa è aumentata. L'innovazione è accelerata. Abbiamo più forze a maggiore prontezza. Con tutto questo, la nostra deterrenza è buona per ora ma è il domani che mi preoccupa. È tempo di passare a una mentalità da tempo di guerra e di dare una spinta alla nostra difesa, produzione e spesa per la difesa».

Le parole del segretario generale della Nato, Mark Rutte, al convegno organizzato a Bruxelles organizzato da Carnegie Europe, ripetono in modo ossessivo gli stessi concetti espressi ormai da un paio d’anni dal suo predecessore Jens Stoltenberg, da generali, primi ministri, presidenti di commissione Ue e ministri della Difesa delle nazioni aderenti a NATO ed Unione Europea.

Niente di nuovo quindi anche se le esortazioni belliciste sembrano un po’ confuse. Per Rutte «la spesa per la difesa è aumentata» ma «deve essere maggiore al 2% del Pil per assicurarsi la pace». Affermazione che non è però in grado di dimostrare: può forse garantirci che spendendo il 3% del PIL per la Difesa avremmo la pace? Avere o meno la pace non dipenderà anche dalle decisioni politiche? 

L’affidabilità di tali affermazioni potrebbe rivelarsi la stessa di chi affermava nel 2022 che «le nostre sanzioni stanno mettendo in ginocchio l’economia e la macchina bellica russa». Rutte si è poi improvvisato veggente affermando che «tra quattro o cinque anni la nostra capacità di deterrenza sarà indebolita a tal punto che i russi potrebbero iniziare a pensare di attaccarci». Valutazione interessante perché afferma che i russi penseranno forse ad attaccarci tra 4 o 5 anni, quindi ci attaccheranno tra 6 o 7 oppure 9 anni? Per il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius i russi ci attaccheranno entro il 2029, fonti d’intelligence tedesche ritengono lo faranno entro tre anni come i vertici della Difesa norvegese, mentre in tutta Europa diversi esponenti politici e militari hanno fornito stime che avevano in comune solo la certezza granitica che i russi ci attaccheranno.  

«C'è un problema con il numero di soldati attualmente disponibili», spiega. «marine e aeronautiche vanno bene ma servono più persone negli eserciti», ha detto Rutte che come fare ad arruolare più militari è «una decisione nazionale», senza voler quindi entrare nel tema del ritorno della leva obbligatoria. In realtà l’affermazione di Rutte è anche in questo caso discutibile se si tiene conto che, in caso di guerra, occorrerebbero più piloti e tecnici nell’aeronautica mentre già oggi molte forze navali Nato devono radiare anticipatamente navi da guerra per carenza di equipaggi.

Certo in guerra gli eserciti subirebbero perdite maggiori ma Rutte dovrebbe sapere che da circa dieci anni in tutto l’Occidente si registra la fuga dall’uniforme del personale in servizio mentre sempre meno reclute vengono arruolate. Un fenomeno ingigantitosi con la guerra in Ucraina, in parte per i rischi intrinseci connessi col vestire l’uniforme durante una guerra e in parte perché presso l’opinione pubblica, in Europa e in tutto l’Occidente, pochi comprendono il senso di una guerra contro la Russia e in pochissimi percepiscono la minaccia dell’invasione russa.

Timore che forse smuove qualche sensibilità popolare in Polonia, Repubbliche Baltiche e forse Finlandia ma non certo in molte altre nazioni e non certo in misura significativa. Società e opinione pubblica non si fanno mobilitare dai proclami e dalla chiamata alle armi di premier, ministri e affini, come dimostrano anche le votazioni in Francia, in alcuni lander della Germania, in Austria, Slovacchia, Romania (dove le elezioni sono state annullate tra molte polemiche, per “l’esito non gradito”) e come confermano le profonde crisi politiche a Parigi, Berlino e anche a Londra, dove il governo laburista insediatosi in luglio è già in difficoltà.

Il 58° Rapporto CENSIS La società italiana al 2024 rileva che il 71,4% degli italiani ritenga che l'Unione europea è destinata a sfasciarsi senza riforme radicali, il 68,5% valuta che le democrazie liberali non funzionino più e il 66,3% attribuisce all'Occidente (Stati Uniti in testa) la colpa dei conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente. Infatti solo il 31,6% si dice d'accordo con il richiamo della NATO sull'aumento delle spese militari fino al 2% del PIL, figuriamoci oltre tale percentuale….

Più che dalla “minaccia russa”, la società italiana sembra più sensibile a ciò che mette in discussione o in pericolo la propria identità, e cioè una ben diversa “invasione”. Il 57,4% degli italiani si sente minacciato da chi vuole radicare nel nostro Paese regole e abitudini contrastanti con lo stile di vita italiano consolidato, come ad esempio la separazione di uomini e donne negli spazi pubblici o il velo integrale islamico, il 38,3% degli italiani si sente minacciato dall'ingresso nel Paese dei migranti, il 21,8% da chi professa una religione diversa, il 21,5% da chi appartiene a una etnia diversa, il 14,5% in chi ha un diverso colore della pelle.

Facile trarre dai dati del CENSIS conclusioni semplicistiche circa l’influenza del “populismo” o della “disinformazione russa”, come va tanto di moda fare oggi in Occidente. Più utile (e onesto) sarebbe invece cercare di trarre indicazioni pragmatiche anche se impietose nei confronti di chi in questi anni ha tenuto le redini di NATO, UE e di molte nazioni europee. Anche di tipo economico considerato l’impatto sull’Europa del conflitto ucraino e soprattutto della postura assunta nei confronti di Mosca che tra caro energia e sanzioni – boomerang hanno messo KO l’industria europea.

In Italia il CENSIS ha reso noto che gli investimenti esteri sono scesi da 21,8 miliardi nel primo semestre del 2023 ad appena 8 nei primi sei mesi di quest’anno mentre l'ISTAT ha certificato «il ventunesimo mese consecutivo di calo della produzione industriale»: dato che non è difficile mettere in relazione con la crisi energetica determinata dalla guerra in Ucraina in corso da 28 mesi.

In Europa il 10 dicembre il direttore esecutivo dell'Agenzia Internazionale dell'Energia (Iea), Fatih Birol, ha confermato quello che tutti gli analisti avevano previsto nella primavera 2022: l'industria europea sta perdendo competitività perché penalizzata da prezzi dell'energia molto più alti che altrove. «Il prezzo del gas naturale in Europa è cinque volte superiore a quello degli Stati Uniti e il prezzo dell'elettricità in Europa è tre volte superiore a quello della Cina. Come possono i produttori europei, soprattutto quelli per i quali il costo dell'energia rappresenta una parte significativa dei loro costi complessivi, competere con gli altri paesi?»

In Germania, dove Volskwagen e Thyssen Krupp chiudono stabilimenti e licenziano migliaia di lavoratori, l'industria siderurgica, già in difficoltà, ha ricevuto meno ordinativi nel terzo trimestre rispetto ai tre mesi precedenti e anche allo scorso anno, come ha riferito l'Ufficio federale di statistica Destatis che ne attribuisce la responsabilità al forte aumento dei prezzi dell'energia a seguito della guerra in Ucraina.

NATO e UE sono direttamente responsabili del disastro dell’Europa, non deve sorprendere se l’opinione pubblica non si attende certo che siano questi organismi a dettare le soluzioni.