Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
una pausa salutare

Quella Presenza che riempie le chiese vuote

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Tornate in chiesa anche se non andate a Messa, dice Marcello Veneziani. Appello valido anche per chi a Messa ci va, ma ignora la “liturgia del silenzio” che risuona tra le navate deserte.

Editoriali 07_08_2023

Ripopolare le chiese vuote, «a uno a uno» naturalmente (altrimenti non sarebbero più vuote), «per brevi ma non sporadiche pause di riflessione», in sintesi: Tornate in chiesa, anche senza andare a Messa scrive Marcello Veneziani su La Verità del 30 luglio scorso.

O meglio: tornate in chiesa anche se non andate a Messa, «pur con tutti i dubbi, la lontananza e l’estraneità, la diffidenza e l’antipatia per i preti» (cose che capitano peraltro anche ai cattolici, che non sono mica puri spiriti). Anche se siete secolarizzati, persino – perché no – se in Dio non ci credete. E non (solo) per curiosità turistica o estetica (cosa tutt’altro che disprezzabile, visto che proprio qui su La Bussola abbiamo auspicato una “opzione preferenziale” per gli esteti”). Tra le mille pause caffè-sigaretta-social, «perché non prevedere una pausa senza oggetto, in un luogo che fa pensare?», chiede Veneziani.

Non semplicemente alzandosi dalla scrivania, ma ritirandosi in un «luogo di raccoglimento, al riparo dai rumori e dai consumi, calmo e silente, in cui mettere a tacere anche lo smartphone» e ritagliarsi «una breve fetta di solitudine pensante, di visione calma, di salto nel tempo, non dirò nell’eterno ma in un altro tempo, o meglio in un’altra scansione del tempo». In un tempo altro e in un luogo altro, poiché anche per chi non la identifica con la casa del Signore la chiesa resta «luogo di ristoro della mente e dell’anima», sottratto al «profano scorrere del mondo e della gente (del resto, il sacro, come il tempio, vuol dire ciò che è separato)».

La riflessione di Veneziani andrebbe allargata anche a chi, al contrario, va a Messa ma non in chiesa: cioè pure ai cattolici che hanno dimenticato quanto sia rinfrancante quella “liturgia del silenzio” che risuona tra le navate deserte al di fuori dalle celebrazioni. Magari al mattino presto o in un «pomeriggio troppo azzurro e lungo», quando tutto tace e non si trova – chissà perché – «neanche un prete per chiacchierar…». Per inciso, lo stesso clero potrebbe cogliere il momento propizio in cui un’anima varca la sacra soglia in cerca di frescura e vi trova poi anche refrigerio spirituale. Quanto al “pubblico”, questo è solito riempire l’edificio sacro soltanto per le sacre funzioni, ingolfando spesso di convenevoli e chiacchiericci i cinque minuti dopo l’arrivo e i cinque minuti prima di scappar via per non farsi più vedere fuori dagli orari prestabiliti.

Talvolta, però, è proprio nei momenti di crisi che ci affacciamo ai piedi di un altare quando delle funzioni non resta che l’odore di incenso. Una candela accesa, uno sguardo all’icona o alla statua del santo cui affidiamo le nostre sorti, la mente assorta in preghiera ma forse più spesso ondivaga insieme all’occhio che spazia fin sulla cupola e poi ridiscende notando quella decorazione o quella sbrecciatura che non aveva mai visto nella chiesa straripante all’ora della Messa festiva. È in quei frangenti che ci trasciniamo, pressati dai pensieri, con la testa piena in un edificio vuoto che a ben guardare così vuoto non è. 

Nicchie, volte e colonne non racchiudono l’assenza di un teatro o un cinema quando non va nulla in scena o sullo schermo, ma una Presenza spesso ignorata pure dai credenti: un certo Joseph Ratzinger scriveva che «è questo il bello delle chiese cattoliche, che in esse la liturgia è in qualche modo sempre celebrata» (Il Dio vicino, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008, p. 108). La lampada rossa indica che nel tabernacolo c’è Qualcuno intorno al quale si affolla un leggiadro assembramento di cherubini e serafini i cui sussurri e battiti d’ala intessono l’apparente silenzio che ci offre ristoro: «La fede popola la mia solitudine con il suo sordo mormorio di vita invisibile», scriveva Nicolás Gómez Dávila (In margine a un testo implicito, Adelphi, Milano 2001, p. 152).

Nessuno sforzo è richiesto, basta la “punta” della fede in quella Presenza a rendere tutto più semplice non solo per i fervorosi, ma anche (forse soprattutto) per chi il fervore l’ha perduto o mai avuto, per chi non ha (più) voglia di pregare o per chi non sa farlo, per chi è arrabbiato con Dio o vede il cielo oscurato dalle nubi della fatica del vivere oltre che del credere. Che si creda molto o molto poco, quella “pausa” di ristoro nella penombra di una chiesa deserta equivarrà all’invocazione del cavaliere nel film Il Settimo Sigillo: «Dall'oscurità che tutti ci attornia, mi rivolgo a te, o Signore Iddio, abbi misericordia per noi che siamo sgomenti e ignari».