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fede e committenza

Ci vorrebbe una "opzione preferenziale" anche per gli esteti

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L'arte cristiana affascina anche i non credenti. Almeno quella dei secoli passati, poiché quella odierna non sempre è in grado di appagare il cuore di quanti attraverso il bello cercano l'eterno...

Editoriali 01_07_2023

Benché in calo di fedeli, chiese e basiliche continuano a riempirsi di folle affascinate dai tesori dell’arte cristiana. Almeno di quella dei secoli che furono. Tanto che verrebbe da affiancare – a scanso di equivoci, secondo la “messoriana” (e cattolica) logica dell’et-et, e non certo in contrapposizione dialettica – alla classica “opzione preferenziale per i poveri” anche una “opzione preferenziale per gli esteti”.  Dove per esteti, sempre a scanso di equivoci, non intendiamo una élite di pochi eruditi, ma chiunque senta il bisogno di sperimentare una bellezza che rifletta l’eterno: necessità avvertita da ogni essere umano che non voglia ripiegarsi in un eterno presente.

Colpisce tanto più il contrasto tra i nuovi “pellegrini” estetici e l’epoca in cui sono sorti i capolavori che oggi vanno ad ammirare. I figli della contemporaneità, spesso totalmente secolarizzati, vanno a scaldarsi alla luce di una vetrata gotica, a cercare ristoro tra colonne, altari e volte, ad ammirare pale d’altare e Madonne in maestà, figlie di un’epoca ormai remota nel tempo ma specialmente nella forma mentis in cui tutti – non importa se santi o peccatori – trovavano il loro riferimento ultimo in quel sacro che oggi appare marginalizzato pure in troppi recenti edifici di culto. Buona parte dei primi compie lunghi viaggi per ammirare una cattedrale o una pieve, anche se magari non mette piede nella parrocchia più vicina a casa sua. Resta indifferente alla predicazione verbale odierna, ma resta affascinato dalla “predicazione visiva” innalzata, scolpita, affrescata, cesellata dai nostri antenati, che riecheggia fino ai nostri giorni. E di riflesso indica le priorità di una committenza ecclesiastica che alle botteghe artistiche affidava – con accenti, temi e stili variabili a seconda dei secoli e delle “scuole” teologiche e artistiche – l’annuncio delle “cose di lassù”.

Ecclesia, quid dicis de te ipsa? Chiesa, che dici di te stessa? La domanda che risuonava durante il Vaticano II risuona ancor più forte nel constatare il diaframma – spirituale prima ancora che artistico – che separa un certo tipo di edilizia di culto attuale dai pur diversissimi stili del passato: questi ultimi erano accomunati quantomeno dalla tensione verso l’“altro mondo”, rendendo visibile in qualche misura l’invisibile, proprio come quegli antichi rotoli dell’Exultet le cui miniature mostravano al popolo l’inno cantato dal diacono e i misteri in quel momento proclamati.

È alla stessa Santa Romana Chiesa che dobbiamo, a puro titolo di esempio, i mosaici di Ravenna e le cattedrali di Siena, di Orvieto, di Chartres; le storie francescane dipinte da Giotto ad Assisi e la Madonna della Misericordia di Piero della Francesca; la solennità austera del romanico e quella trionfante del barocco, l’ascesi e la gloria materializzate in pietre e marmi che a loro volta paiono smaterializzarsi per ricomporsi direttamente nella Gerusalemme celeste. Oltre ai grandi capolavori, le dobbiamo anche le più sperdute abbazie, le minuscole pievi e le umili chiese di paese, i cui ignoti costruttori conosceremo soltanto nel giorno del Giudizio, insieme ai tanti “graziati” che dopo averle affumicate a forza di candele accese a questo o quel santo, ne incastonavano le nicchie di ex voto per grazia ricevuta.

Ahinoi, dispiace dirlo, è alla stessa Santa Romana Chiesa che negli ultimi decenni dobbiamo pure lo strazio di una cesura col passato imposta a suon di “adeguamenti liturgici”, altari storici segati via o ridotti a mensole e soppiantati da arredi in stile minimal per il solo fatto di aver attribuito «un’importanza maggiore all’essere in sintonia con lo spirito dei tempi piuttosto che con quello Spirito che trascende tutti i tempi», per dirla con Hans Sedlmayr (La rivoluzione dell’arte moderna, Cantagalli, Siena 2006, p. 175).

Una sorta di cancel culture intra-ecclesiale (che però è autoimposta) alla base di tutto un fiorire, o meglio un appassire, di anonimi edifici che il più delle volte si riconoscono come chiese solo per la stravaganza delle forme, in cui non riecheggia alcuna predicazione per noi, figuriamoci per i posteri. Chi andrà mai a scaldare il cuore dentro un edificio non troppo differente da una fabbrica o da un centro commerciale, che non trova corrispondenza con i misteri che pure si celebrano al suo interno? E soprattutto – ecco perché la “nostra” opzione non è affatto in contrasto con quella per i poveri – perché privare chi fatica a tirare avanti anche di quella speranza che la bellezza porta con sé?

Nulla più che rallegri gli occhi e con essi il cuore: niente più cherubini marmorei, niente più Madonne e santi in trono, niente più barocchismi e neanche la sobria maestosità di certe abbazie, le cui navate sembrano dissolversi nelle nubi di incenso che salgono fino alla volta. Tutte “anticaglie” intollerabili per una pastorale dimessa e una liturgia “perennemente feriale”, che ha chiuso in cantina i tesori del passato (privandone tutti, ricchi e poveri) senza saper offrire qualcosa di analogo agli uomini del presente. Eppure, citando Nicolás Gómez Dávila, «gli artifici estetici non sono strumenti di laboratorio ma trappole per dare la caccia agli angeli», cioè per poter almeno “sbirciare” l’altro mondo.

Ben venga il rinnovo di un’alleanza tra arte e fede, auspicata da tutti gli ultimi pontefici, da san Paolo VI (nel 1964) a Francesco (pochi giorni fa) e senza dimenticare quelle “pietre miliari” costituite dalla Lettera agli artisti di san Giovanni Paolo II e dalle riflessioni sul tema di Benedetto XVI (per esempio, l'udienza del 31 agosto 2011). Sarebbe altrettanto opportuno auspicare un’alleanza tra arte, fede e una committenza ecclesiastica che non sembra neanche voler “battezzare” la modernità ma “sposarla” sic et simpliciter.

Per questo ci vorrebbe un’opzione preferenziale per gli esteti, cioè per tutti coloro che attraverso il bello cercano l’eterno, ma non riescono a intravederlo nelle chiese di oggi, la cui “predicazione visiva” sembra proclamare lo Zeitgeist, «lo spirito dei tempi». O almeno non si accusi di vuoto estetismo chi, al contrario, coglie «lo Spirito che trascende tutti i tempi» fra “medievalismi” e “barocchismi”, eco dipinte e scolpite di qualche predicatore morto secoli fa ma ancora capace di toccare il cuore.
 



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