Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Cristo Re a cura di Ermes Dovico
dove va il pd

Populismo e woke: la "svolta" Schlein è trasformismo

Ascolta la versione audio dell'articolo

L'elemento più rilevante nella vittoria della Schlein sta nel fatto che la sua candidatura è stata sostenuta da una parte considerevole della classe dirigente Pd. La “svolta” in realtà è stata un'operazione pilotata dall'alto, frutto di un calcolo: nelle democrazie occidentali lo spazio per una forza socialdemocratica si va sempre più esaurendo a vantaggio di forze apertamente populiste, volte a rappresentare la consistente parte di società instabile, precaria e improduttiva.
- PIACERÀ AI CATTOLICI EVANESCENTI, di Stefano Fontana 

Politica 28_02_2023

A uno sguardo superficiale la vittoria a sorpresa di Elly Schlein alle primarie del Partito democratico potrebbe apparire come un netto scarto, una svolta, o addirittura la fine della parabola del Partito democratico, in cui per 15 anni si è tentato di unire la tradizione politica post-comunista e quella cattolico-democratica in chiave liberal-progressista. E infatti in tal senso è stata già interpretata da alcuni osservatori come trasformazione del Pd in partito minoritario radical chic della borghesia urbana, imperniato sulle rivendicazioni tipiche dell'ideologia woke (ambientalismo “gretista”, agenda Lgbt+, immigrazionismo e simili).

Tanto più è forte la tentazione di una simile lettura se si vede nell'inattesa sconfitta di Stefano Bonaccini, candidato del “cuore” piddino delle residue “regioni rosse”, la débacle di quella che fu chiamata “la Ditta”, cioè la classe dirigente che ha connotato negli ultimi decenni la sostanziale continuità del Pd con la storia del Pci. Un'idea corroborata dalla considerazione che in dieci anni i votanti per le primarie Pd sono crollati dai 3 milioni e mezzo del 2007 a poco più di un milione; e che la nuova “segretaria” è stata eletta sostanzialmente grazie ai non iscritti al partito, rovesciando il verdetto dei circoli che aveva visto prevalere piuttosto nettamente Bonaccini.

Ma in tale prospettiva non si coglierebbe il significato autentico di ciò che è accaduto domenica ai gazebo del Pd. La vittoria della Schlein esprime certamente due distinte, ma convergenti tendenze dell'area di opinione di riferimento di un partito in forte crisi d'identità e di consensi: da un lato, l'emergere in primo piano di issues “culturali” propri di un radicalismo borghese, rappresentativi del substrato socio-culturale degli attuali elettori e simpatizzanti; dall'altro la spinta a un rinnovamento “catartico”, a una caratterizzazione più nettamente “a sinistra”, che sul piano politico concreto si traduce in una pressione in favore di un'alleanza organica con il Movimento 5 Stelle e ciò che resta della sinistra radical-ecologista, e di una opposizione più netta verso il governo di centrodestra guidato da Giorgia Meloni.

Da tale ultimo punto di vista è plausibile supporre che molti votanti abbiano scelto la Schlein anche come una sorta di antitesi simbolica dell'attuale premier. Ciò detto, però, l'elemento più politicamente rilevante nella vittoria della Schlein sta nel fatto che la sua candidatura è stata sostenuta a spada tratta da una parte considerevole della classe dirigente del partito, e in particolare del Pd romano: come l'ex segretario Zingaretti o gli ex ministri Franceschini, Provenzano, Orlando e Boccia (quest'ultimo addirittura coordinatore della campagna della neo-segretaria). Un simile, pesante endorsement assume un significato assai chiaro: la “svolta” è stata un'operazione pilotata dall'alto, frutto di un calcolo ben preciso dei dirigenti del partito su quale sia in questo momento la collocazione più strategicamente redditizia del partito stesso.

Quel calcolo parte dalla realistica constatazione che nelle democrazie occidentali lo spazio politico per una forza socialdemocratica si va sempre più esaurendo per il disfarsi della base sociale e del contesto economico in cui le socialdemocrazie avevano giocato un ruolo; che a maggior ragione va esaurendosi lo spazio per un ibrido come il Pd, sempre incapace di scegliere tra una direzione popolare e liberale e una, appunto, socialdemocratica; e che, viceversa, in misura crescente le sinistre si ridefiniscono (nei paesi latini ancor più) come forze politiche apertamente populiste, volte a rappresentare la consistente parte di società instabile, precaria, improduttiva non più inquadrabile nelle classi sociali novecentesche, e fautrici soprattutto di assistenzialismo e sussidi.

In alcune nazioni, come la Francia, tale ridefinizione si esprime attraverso una formazione di sinistra radicale alternativa al vecchio partito socialista; in altre, come Spagna e Italia, attraverso la nascita di movimenti populisti non incasellabili nelle precedenti “famiglie” partitiche, come il Movimento 5 Stelle e Podemos, che possono poi scegliere di contrapporsi alla sinistra “tradizionale” o di allearsi con essa.

Ora, nel nostro Paese le elezioni del 2018 hanno visto, come è noto, i 5 Stelle affermarsi addirittura come partito di maggioranza relativa, e quelle del 2022, dopo la loro ricollocazione più nettamente a sinistra, li hanno consolidati come forza dal consenso minore di quello del Pd, ma tendenzialmente in crescita laddove quello appare in ulteriore calo.

In tale contesto, la scelta della Schlein come segretaria si spiega come una operazione politica trasformistica attraverso la quale il Pd si indirizza decisamente verso un'alleanza con il M5S, ma al contempo si distingue dai potenziali partner cercando di mantenere saldo il riferimento al proprio attuale “zoccolo duro” di consenso, cioè quello dei ceti “Ztl” o “boscoverticalisti”, della “borghesia cognitiva”, della parte di dipendenti pubblici ancora ad esso legata, e di sintonizzarsi simbolicamente sul modello Dem di area americana come mezzo di legittimazione internazionale.

L'ambizione dei dirigenti che spalleggiano la nuova leader è evidentemente quella di rivendicare per lei, nel prossimo futuro, la guida della coalizione M5S/Pd in ragione, appunto, del suo essere donna e del suo essere riconosciuta come aderente al modello più trendy e appetibile ai media della sinistra occidentale, per riconquistare consensi ridisegnando gli equilibri di forza interni a essa, e mettere pressione sul centrodestra meloniano erodendo la “presentabilità” all'estero che esso si sta faticosamente conquistando. Con un ulteriore, possibile effetto destabilizzante sul governo: il distacco dal partito dell'area più liberale sui temi economici e sociali verosimilmente irrobustirà uno schieramento centrista dotato di maggiore forza attrattiva su settori della attuale maggioranza (soprattutto Forza Italia).

Incoraggiando così crescenti “distinguo” di questi ultimi rispetto alla linea governativa, che tra l'altro, a causa delle immaginabili provocazioni di una sinistra a forte impronta laicista e woke, potrebbero concentrarsi facilmente su temi bioetici.

Chi a destra intende difendere ancora i “principi non negoziabili” su vita e famiglia farà bene a riflettere su tale dinamica e a reagire di conseguenza, consolidando la propria strategia e la propria opera di aggregazione, se non vorrà avere la brutta sorpresa di una crisi di governo proprio su quei temi, e di conseguenti elezioni in cui la sinistra “Schlein-Ferragni” e quella populista contiana si saldino su issue simbolici “intersezionali”, con l'aggiunta di cellule impazzite da un residuo berlusconismo ormai “carfagnizzato”.