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III DOMENICA D'AVVENTO

Permettiamo così al Signore di donarci la vera gioia

Il nostro cuore è in attesa della salvezza, sappiamo che sta arrivando e non sarà il vaccino, perché è solo il Signore che consolerà i nostri cuori. La vera gioia è ormai alle porte della storia e coinvolgerà tutto e per sempre, quindi anche noi, i cuori spezzati, chi sente il peso del passato e del peccato. Purché saremo umili, sapendo cogliere i segni che ci dona il Signore. Fino a provocare ammirazione, lasciando chi ci guarda, stupiti dalla luce che emaniamo.

Ecclesia 13_12_2020

Questa III domenica di Avvento è caratterizzata da una parola che la percorre con insistenza e questa parola è “gioia”. Non si tratta di una gioia qualsiasi, di un semplice sentimento di felicità dato da una bella notizia che rende felice il cuore per un attimo. La gioia che prorompe in questa domenica deriva dalla consapevolezza della Chiesa di sapere che è ormai vicina la nascita del Signore, che la vera gioia è ormai alle porte della storia e che coinvolgerà tutto e per sempre, e quindi anche noi ne saremo coinvolti e immersi.

È l’antifona di ingresso che subito apre la porta del nostro cuore alla gioia: «Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi. Il Signore è vicino».

Tutta la Chiesa è nella gioia, allora, e anche le nostre case lo rivelano preparandosi alla festa, pur nelle molte difficoltà e preoccupazioni che stiamo vivendo a causa della crisi sanitaria ed economica in cui siamo costretti a vivere questo tempo di vicinanza al Natale. Il nostro cuore è in attesa della salvezza, sappiamo che sta arrivando e non sarà il vaccino a darci la gioia, perché è il Signore che consolerà i nostri cuori (l’annuncio di domenica scorsa) in quanto verrà nella nostra storia, perché sarà il “Dio-con-noi”.

È il profeta Isaia, nella prima lettura ad annunciare per primo, in questa domenica, la gioia: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli». Si tratta di una gioia piena perché è nel Signore, profonda perché è dell’anima e avvolgente perché salva. È indicata con termini sponsali, quindi di relazione intima, di amore e donazione, per sempre. Colpisce anche la ricchezza con cui Isaia descrive questo rapporto nuziale, si parla di diadema e di gioielli. Si tratta di una ricchezza che provoca ammirazione e suscita stupore per la sua bellezza. La gioia del Signore, allora, è davvero un dono prezioso che lascia, chi ci guarda, ammirati per la luce che promana dal nostro volto perché ci rende belli se riflettiamo la bellezza del Signore che è in noi, se non la deturpiamo con il nostro egoismo e soprattutto col nostro peccato.

Il monastero, la comunità cristiana e la Chiesa tutta respirano di questa bellezza che promana da Dio soprattutto quando vive nei tempi forti della liturgia come l’Avvento, perché la grazia di questi momenti apre maggiormente il nostro cuore a ricevere il Signore, il quale, come ci ricorda ancora Isaia, è «mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia». Riguarda, quindi, proprio noi da vicino, perché proprio noi ci sentiamo soprattutto in questo periodo particolare, miseri e a volte col cuore spezzato dalle delusioni della vita, oppure schiavi e prigionieri delle nostre paure, del nostro passato o dei nostri errori. Siamo, allora, nella gioia, ma attendiamo la sua pienezza, la sua rivelazione compiuta, il suo avvento pieno.

È il salmo responsoriale che realizza quanto annunciato dal profeta nella prima lettura. «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza» di Isaia, diventa: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva» nel cantico di Maria. L’umiltà diventa il nuovo centro, la consapevolezza che tutto deriva da Dio e che noi siamo solo delle sue creature. Ma al tempo stesso Maria può dire che «d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata». Lo sguardo di Dio tocca la sua creatura e le permette di avere una visione su tutta la storia, una visione di beatitudine. Il centro del cantico lo troviamo in questa espressione: «Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono». All’umiltà di Maria corrisponde la consapevolezza della grandezza di Dio che si rivela nella sua misericordia senza limiti, di generazione in generazione, purché si accetti di stare sotto la sua luce, purché non restiamo abbagliati dalle luci artificiali e apparenti che ci portano lontano da Dio ma sappiamo cogliere i segni che ci dona il Signore.

Un segno concreto di vita e di speranza per il mio monastero è la presenza di una nuova professione monastica che spinge alla gioia di sapersi pensati e amati da Dio. È una voce giovane, entusiasta, e discreta che si aggiunge al nostro coro monastico che canta nel deserto dando testimonianza alla Luce, perché tutti possano credere e gioire nel Signore.

Lasciamo che il Signore ci possa raggiungere con il suo amore, con i segni di speranza che lascia lungo la nostra strada e che ci invitano alla gioia.

* Abate dell'Abbazia di Nostra Signora del Pilastrello (Lendinara)