Per i giudici inglesi Midrar «è morto l’1 ottobre». Eppur cresce
La Corte d’Appello di Londra ha rigettato ieri la richiesta della famiglia di Midrar Ali, confermando il permesso al Saint Mary’s Hospital di Manchester di staccare il ventilatore al piccolo di quasi cinque mesi. Per i giudici si deve dichiarare che «Midrar è morto alle 20:01 dell’1 ottobre 2019», data del primo test neurologico. Eppure il bambino continua a crescere e oggi pesa circa otto chili: come si può dire che è morto quattro mesi e mezzo fa? Una convenzione clinica, legata al tema della donazione degli organi, sostituisce la realtà.
Il verdetto temuto è arrivato. La Corte d’Appello di Londra ha respinto in toto il ricorso presentato dai genitori di Midrar Ali, negando il permesso all’appello e autorizzando il Saint Mary’s Hospital di Manchester a staccare il ventilatore al piccolo di quasi cinque mesi che soffre di una grave lesione cerebrale dal giorno della nascita, il 18 settembre, per complicazioni legate al parto. Scriviamo «di quasi cinque mesi» perché così dice la realtà, ma la decisione all’unanimità pubblicata ieri dalla Corte d’Appello, salvo futuri ribaltamenti, farà passare alla storia un altro racconto, e cioè che Midrar «è morto» alle 20:01 dell’1 ottobre 2019, data del primo test neurologico eseguito sul bambino, allora nato da appena 13 giorni.
I tre giudici d’Appello - Andrew McFarlane, Nicholas Patten ed Eleanor Warwick King - hanno quindi sposato la linea dell’ospedale di Manchester e della sua dichiarazione di «morte del tronco cerebrale», basata su tre differenti test fatti prima ancora che Midrar compisse due mesi (appunto l’1 ottobre, il 2 ottobre e il 4 novembre), la cui attendibilità è stata contestata dalla famiglia. Gli avvocati dei genitori stanno ora esplorando le altre possibili via legali.
La richiesta di permesso all’appello verteva su tre grandi questioni, come spiega la decisione della Corte pubblicata sotto forma di un riassunto per la stampa, in attesa della sentenza integrale, annunciata per lunedì 17 febbraio.
Primo, la famiglia contestava l’idea dell’irreversibilità della condizione di Midrar e chiedeva test aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalla Guida del 2015 emanata dal Royal College of Paediatrics, che - ampliando la portata di un Codice medico del 2008 redatto dall’Academy of Medical Royal Colleges - ha dato il via libera ai test neurologici per i bambini sotto i due mesi d’età. In particolare si domandava di tenere in considerazione prassi mediche di Paesi come gli Stati Uniti dove i test diagnosticano la «morte cerebrale completa» piuttosto che la sola «morte del tronco cerebrale».
I giudici d’Appello hanno rigettato questa richiesta sostenendo che nel caso di Midrar la differenza tra il primo criterio e il secondo non sia rilevante, perché la posizione dei medici è che «il corpo di Midrar non ha più un cervello riconoscibile come tale». La Corte ha anche scritto che non spetta ad essa «avviare una valutazione se un test diverso debba rimpiazzare i consolidati criteri del Regno Unito» contenuti nei già citati protocolli del 2008 e 2015.
Eppure qui si sta parlando della vita di un bambino - messa in discussione in un tribunale - e il principio di prudenza avrebbe richiesto quantomeno di verificare se quei criteri sono in linea con le conoscenze che si hanno oggi, stante anche il fatto che i suddetti criteri si basano sulle nuove e contestate definizioni di morte, radicatesi dopo il primo trapianto di cuore e il conseguente rapporto di Harvard del 1968. La famiglia aveva sottolineato poi che la Guida del 2015, secondo indicazioni mediche, andrebbe aggiornata ogni cinque anni. Inoltre, il caso di Midrar rappresenta un’eccezione per il Regno Unito, che smentisce quanto i protocolli britannici sui bambini prevedono in tema di morte cerebrale, visto che continua a vivere e crescere a quattro mesi e mezzo di distanza dalla prima volta che è stato dichiarato clinicamente morto. Perché, dunque, tanta fretta di chiudere il ‘caso’?
Secondo punto. Lord Brennan, legale della famiglia, aveva chiesto che il caso di Midrar venisse trattato sulla base del «miglior interesse» (qui inteso in senso buono) del bambino, ma i giudici - ritenendo il piccolo già morto - hanno liquidato la richiesta e scritto che qualsiasi considerazione del «miglior interesse» avrebbe comunque comportato per lui «il distacco del ventilatore». Il terzo punto contestava il divieto di pubblicare i nomi dei medici e degli altri operatori sanitari coinvolti nella vicenda, ma anche in questo caso la Corte non ha accolto l’istanza.
Rigettate tutte le istanze della famiglia, la Corte ha quindi richiamato il precedente giurisprudenziale noto come Re A (A Child) [2015], caso deciso dal giudice Hayden e riguardante un bambino di 19 mesi, i cui genitori, musulmani, erano contrari a staccare il ventilatore. Hayden stabilì che il bambino “A” era morto nel momento in cui i test avevano dichiarato la «morte del tronco cerebrale», ordinando di rimuovere il ventilatore per consentire dignity in death.
Stesse parole, queste ultime, usate ieri dai giudici d’Appello. I quali concludono che «le dichiarazioni» (di morte) dovranno essere fatte sulla falsariga di quelle di Hayden, «dichiarando che Midrar è morto alle 20:01 dell’1 ottobre 2019» e che l’ospedale di Manchester ha l’autorizzazione per staccare il ventilatore a Midrar «permettendogli dignità nella morte». Lo stesso trust dell’NHS, lo ricordiamo, aveva chiesto formalmente nella sua istanza del 29 novembre di staccare il supporto vitale per consentire al piccolo «una morte buona e dignitosa».
Ma se si chiede che il bambino possa morire dignitosamente, che senso ha affermare che sia già morto quattro mesi e mezzo fa? C’è un problema con il principio di non contraddizione. Evidentemente, il relativismo dei giorni nostri si è abbattuto anche sulla morte, che da fatto oggettivo viene tramutata in un’opinione soggettiva, una convenzione clinica che non si vuole mettere in discussione. A farne le spese è la realtà, che ci dice che Midrar, da quando è «morto», ha continuato a crescere: 7.9 chili l’ultimo peso rilevato.
Karwan Ali, il padre di Midrar e scienziato biomedico di fede musulmana, aveva spiegato alla Nuova Bussola che lo staff dell’ospedale gli aveva prospettato la possibilità di donare gli organi già nella prima settimana di ricovero del figlio (anche per Tafida era successa una cosa simile). La sentenza di primo grado recita inoltre: «Il signor Ali ha anche affermato che vari clinici avessero un conflitto d’interessi perché avevano un certo coinvolgimento nella donazione di organi». E qualifica l’accusa come offensiva e indimostrata. Non possiamo sapere se qui ci sia conflitto d’interessi o meno.
Rimane comunque appurato il fatto che i criteri neurologici di determinazione della morte sono stati adottati, da Harvard in poi, per ampliare il numero di donatori di organi, sulla base di una riduzione dell’essere umano al suo cervello (vedi l’approfondimento della Nuova Bussola qui, qui e qui); e mettere in discussione questi criteri ‘rischia’ di far traballare l’intero settore dei trapianti. Che post mortem sono moralmente fattibili solo a certe condizioni, tra cui, chiaramente, la morte certa. Sennò si finisce per considerare l’uomo come un mezzo.