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INTERVISTA A D. NGUYEN (integrale)

«Organi e trapianti, quanti dubbi sul momento della morte»

"Morte cerebrale" e "morte a cuore fermo": sono i due paradigmi con cui si stabilisce ufficialmente la morte di un paziente, vittima di incidente o con grave disabilità, per poter procedere all'espianto degli organi. Ma questa dichiarazione spesso «non corrisponde alla morte biologica», sono due concetti introdotti per facilitare i trapianti, denuncia la teologa e bioeticista Doyen Nguyen, che si batte per riaprire il dibattito su questo tema delicato.

Vita e bioetica 14_06_2019

Quando davvero si può dichiarare morta una persona? La domanda potrebbe sembrare oziosa, ma la risposta che si dà ha invece grandi ripercussioni dal punto di vista morale e sanitario, perché da questa dipende tutto il settore dei trapianti di organi. Ci riferiamo soprattutto ai pazienti reduci da incidenti o con gravi disabilità. Oggi si dà per scontato il paradigma della “morte cerebrale”, ma anche quello della cosiddetta “morte a cuore fermo”, da chiamare più propriamente in inglese controlled cardiac-circulatory death (CCCD, ma sono diffuse anche altre sigle; letteralmente "morte controllata cardio-circolatoria"). C’è però chi non si rassegna, soprattutto in ambito cattolico, a questi paradigmi che hanno un’indubbia origine utilitaristica. E intende riaprire il dibattito.

Il paradigma della “morte cerebrale”, infatti, è stato definito nell'agosto del 1968, cioè pochi mesi dopo il primo trapianto di cuore, proprio con il fine di ottenere organi funzionanti da pazienti vivi, come un’inchiesta della Nuova Bussola aveva ricostruito (qui, qui e qui). Meno conosciuto è appunto il paradigma della cosiddetta "morte a cuore fermo", introdotto per quei pazienti che non si possono dichiarare "cerebralmente morti" ma che sono reduci da incidenti o hanno comunque gravi disabilità, spesso neurologiche, e beneficiano di un supporto vitale (una casistica con le varie categorie di donatori "morti a cuore fermo" si può leggere nel relativo protocollo italiano approvato dal Centro Nazionale Trapianti, a pag. 7 del documento). Quest’altra definizione, introdotta negli Usa nel 1993, ha chiaramente l’effetto di allargare il parco dei donatori di organi.

Si possono questi paradigmi considerare coincidenti con la morte effettiva? A dare una risposta assolutamente negativa è la professoressa Doyen Nguyen, specializzata in Medicina ematologica e a lungo attiva in questo campo, poi laureata in Teologia morale, specializzata in Bioetica, e oggi docente alla Pontificia Università di San Tommaso d'Aquino (Angelicum). La Nguyen ha dedicato molti studi al tema della definizione di morte e ne ha parlato a un recente convegno a Roma incentrato proprio sulla “morte cerebrale”. L’abbiamo intervistata per comprendere meglio le sue ragioni.

Professoressa Nguyen, al convegno dell'Accademia Giovanni Paolo II tenutosi a Roma il 20-21 maggio e incentrato sul concetto della "morte cerebrale", lei ha tenuto una relazione sulla "morte a cuore fermo", sottolineando l'inganno che si cela in entrambi i costrutti. Ci può spiegare di cosa si tratta?
La "morte a cuore fermo", più propriamente controlled cardiac-circulatory death (CCCD), è un altro paradigma accanto a quello della morte cerebrale. Nel 1993, cioè 25 anni dopo la definizione utilitaristica di "morte cerebrale" contenuta nel rapporto di Harvard, è stato predisposto negli Stati Uniti un altro protocollo, quello di Pittsburgh, perché si era in cerca di un maggior numero di organi. È un cosiddetto ritorno al criterio cardio-respiratorio, ma in realtà la controlled cardiac-circulatory death è fondata sul paradigma della "morte cerebrale". In casi del genere il potenziale donatore è un paziente (con organi sani) che non è cerebralmente morto e che ci si aspetta che muoia entro 60 minuti dalla rimozione del supporto vitale.

Quel protocollo stabilisce un'attesa di 2 minuti (Pittsburgh Protocol), ampliata anche a 5 minuti (raccomandazione dell'Institute of Medicine), dopo l'arresto del battito cardiaco. Questo intervallo di 2-5 minuti è chiamato periodo "no touch" o "death watch" [un periodo di osservazione del paziente, ndr]. Il paziente firma prima un permesso a non essere rianimato, il DNR (do not resuscitate), cioè a farlo morire dopo il distacco del ventilatore, e un consenso a donare gli organi. Il paziente è poi portato in sala operatoria. Il supporto vitale viene rimosso. Dopo che si ferma il suo battito cardiaco per 2-5 minuti (l'intervallo varia a seconda degli specifici protocolli), il paziente viene dichiarato morto, e l'espianto degli organi inizia immediatamente. Ora, questo intervallo di 2-5 minuti non basta perché ci sono persone che possono avere un arresto cardiaco e il cui cuore può tornare a battere praticandogli la rianimazione cardiopolmonare (CPR). A volte avviene anche quello che è chiamato "fenomeno di Lazzaro", con la spontanea riattivazione del sistema cardiocircolatorio, riscontrata fino a 33 minuti dopo l'arresto cardiaco. Ma, in nome del rispetto dell'autonomia (autodeterminazione), la rianimazione cardiopolmonare non può essere fatta su un paziente che ha firmato il consenso al DNR. È riconosciuto, perfino dai sostenitori della CCCD, che tale donatore non è morto al momento dell'espianto degli organi. Quindi, questo paradigma della cosiddetta "morte a cuore fermo" è quasi peggiore del paradigma della "morte cerebrale".

Sono quindi paradigmi che condividono la stessa concezione utilitaristica?
Sì, nel protocollo della controlled cardiac-circulatory death si afferma esplicitamente che esso è stato ideato per espandere il numero di potenziali donatori di organi. Il secondo paradigma si basa alla fine sui presupposti del primo perché è basato sulla tesi (sostenuta dai proponenti della "morte cerebrale") che la morte cerebrale sia la morte sic et simpliciter, che può essere determinata o usando il criterio della "morte cerebrale" o il cosiddetto criterio cardio-respiratorio della controlled cardiac-circulatory death. Comunque, in realtà, l'attesa di 2-5 minuti del periodo "no touch" non è abbastanza lunga per produrre la condizione di "morte cerebrale", figuriamoci la morte vera! In Europa abbiamo invece il protocollo di Maastricht, che adotta un intervallo di 10 minuti [esteso a 20 minuti in Italia, ndr] prima di espiantare gli organi sempre sulla base di una situazione simile alla "morte cerebrale". In base al protocollo di Maastricht, soltanto i reni possono essere espiantati poiché sono più resistenti degli altri organi (per esempio, il fegato, il pancreas, il cuore) alla lesione ischemica. Ma come dimostrato ripetutamente nella letteratura medica, i pazienti "cerebralmente morti" non sono morti al momento dell'espianto degli organi. In che modo, allora, possono essere morti i donatori nel protocollo della "morte a cuore fermo" (CCCD) se i loro organi vengono espiantati?

Con il protocollo di Maastricht si possono dunque espiantare solo i reni, mentre con il protocollo di Pittsburgh?
Riguardo a quello di Pittsburgh, dal 1993 al 2008 estraevano i reni e altri organi, eccetto il cuore, perché secondo i criteri del protocollo il cuore doveva essere già “morto” irreversibilmente... quindi, si diceva, come si può fare un trapianto di cuore dopo che il cuore è morto? Ebbene, nel 2008, il dottor Boucek fece tre trapianti di cuore da donatori bambini: nel primo caso aveva atteso 3 minuti, negli altri due casi ancora meno, 75 secondi. Ma questo vuol dire che il cuore nella persona A, con una diagnosi di "morte a cuore fermo", trapiantato con successo nella persona B, avrebbe continuato a battere anche nella persona A, se solo l'avessero rianimata. Come ha scritto Veatch: "È impossibile trapiantare un cuore con successo dopo un arresto irreversibile: se un cuore riprende a battere, la persona da cui è stato rimosso non può essere morto secondo criteri cardiaci. Rimuovere gli organi da un paziente il cui cuore non solo può tornare a battere, ma è stato anche riavviato in un altro corpo, significa terminare una vita con l'espianto di un organo".

Può riassumere i criteri principali per avere sicurezza della morte?
Per accertare che una persona è morta, si devono manifestare determinati segni: c'è una costellazione di segni. Forse il più precoce e macroscopico segno della morte è la caduta della temperatura perché viene a finire il metabolismo. Quando la persona può ancora assimilare cibo, acqua, respirare, continua la sua funzione urinaria, etc: queste sono prove del metabolismo. Il metabolismo genera calore e, quindi, mantiene la temperatura del corpo. Gli esseri umani sono mammiferi a sangue caldo: fino a quando il corpo umano può mantenere la sua temperatura corporea (anche con l'aiuto di alcune coperte), vuol dire che la persona è ancora viva. Il metabolismo, inteso nel suo senso pieno, è un processo completo che avviene sia a livello cellulare, microscopico, ma anche a livello macroscopico, appunto con la produzione di pipì, feci, il respiro, ecc. Tra i segni macroscopici della morte, oltre al crollo della temperatura, devono manifestarsi altri segni. Come affermato da Cantor: «Un cadavere sicuramente si putrefarà e disintegrerà. Il processo inizia entro pochi minuti dalla morte [...]. Il sangue drena dai capillari in superficie e penetra nelle vene più profonde, lasciando la pelle più pallida che in vita [...]. Entro un paio d'ore [...] il sangue si accumula nelle parti inferiori del corpo, creando lì uno scolorimento viola noto come "livor mortis". Lo scolorimento scompare nel processo di imbalsamazione quando il sangue è drenato dal cadavere. Entro 48 ore una tavolozza verdastra di batteri compare su chiazze di pelle. La putrefazione - cioè la dissoluzione del cadavere in liquidi e gas - inizia generalmente entro pochi minuti dalla morte e diventa evidente entro due o tre giorni [...]. L'azione microbica dei batteri, insieme agli enzimi distruttivi che scaturiscono dalla disgregazione cellulare, gradualmente liquefà i tessuti molli. Gli organi sono le prime parti a liquefare, a cominciare dagli occhi e continuando con il cervello, lo stomaco e il fegato. Temperature più elevate accelerano il processo di decadimento, mentre temperature più basse lo ritardano».

Perciò, come si può dire che la persona è morta appena 2 minuti dopo l'arresto del battito cardiaco? Non è possibile dirlo, perché non corrisponde alla realtà biologica. Nella cosiddetta "morte cerebrale" il cuore del donatore ancora batte, mentre nella "morte a cuore fermo" se fai un'elettrostimolazione o un CPR è possibile rianimare il cuore, è possibile che torni a battere.

Dare il consenso al DNR (do not resuscitate) è quindi il primo problema?
Sì, questo fa parte del concetto di autonomia, quella che chiamano autodeterminazione. Come affermato da Edmund Pellegrino, un valido consenso al DNR implica che si permette che la morte avvenga naturalmente come evento finale di una malattia terminale; il decorso clinico di questa malattia terminale è costantemente in discesa in modo tale che la morte si verifichi entro un intervallo prevedibile (per esempio, alcuni giorni). Quindi, mentre il DNR è accettabile per un paziente allo stadio terminale di una malattia terminale (ad esempio il cancro), non è accettabile nel caso di controlled cardiac-circulatory death perché, qui, lo scopo è ottenere organi di buona qualità. Il consenso al DNR nel caso di controlled cardiac-circulatory death ha una vicinanza con il suicidio e l'idea alla base della "morte a cuore fermo" confina con l'eutanasia. Ma non ho creato io la mia vita, non ne sono il padrone, perché la vita viene da Dio. Quindi, la vita non può essere tolta meramente sulla base del rispetto dell'autodeterminazione del paziente.

Quando è lecito allora donare i singoli organi vitali?
Lecito vuol dire dopo la morte, la morte vera, che non è la "morte cerebrale" né quella "a cuore fermo", che sono concetti che si basano sulla mistificazione delle parole. Quando c'è una persona morente gli organi via via ricevono meno sangue, meno ossigeno, e questo significa che la qualità dell'organo si va progressivamente riducendo. Noi non possiamo determinare il momento esatto della morte. La morte è un evento metafisico e un fenomeno; un evento metafisico perché avviene la separazione dell'anima dal corpo. Non abbiamo nessuno strumento per rilevare la presenza di questa cosa immateriale che è l'anima, quindi non possiamo stabilire con certezza il momento esatto in cui l'anima si separa dal corpo, è impossibile, così come stabilire l'esatto momento del concepimento, anche questo un evento sia biologico che metafisico, in cui l'anima viene infusa nel corpo. Non sappiamo quindi il momento esatto, ma possiamo accertare lo stato di morte in base ai segni che abbiamo detto. Ora, per avere organi buoni, trapiantabili, bisogna prenderli da un corpo ancora vivo. Questo fatto l'avevano capito già prima degli anni Sessanta.

Prima ancora del primo trapianto di cuore (3 dicembre 1967)?
Sì, prima. I trapianti sono iniziati con i trapianti di reni, ma poi hanno visto che la qualità dei reni ottenuti dopo la morte vera era scarsa. Perciò decisero di cambiare la definizione di morte e nell'agosto 1968, pochi mesi dopo il primo trapianto di cuore, il rapporto di Harvard definì il coma irreversibile come un nuovo criterio per la morte. Ora: la morte è un fenomeno, il coma irreversibile è un altro fenomeno. Il nostro concetto di morte deve corrispondere alla realtà, non possiamo imporre sulla realtà ciò che abbiamo in mente. Veritas est adaequatio intellectus et rei (la verità è la corrispondenza tra realtà e intelletto). Se il nostro pensiero prevale sulla realtà, è ideologia.

E durante la vita ci sono donazioni lecite? Per esempio, il beato don Carlo Gnocchi poco prima di morire disse di voler donare gli occhi, o meglio le cornee.
Uno dei reni è lecito donarlo. La donazione delle cornee non equivale alla donazione degli occhi perché la cornea è solo una parte dell'occhio: l'occhio è un organo, la cornea è un tessuto, che non ha bisogno di molto sangue e può durare anche abbastanza dopo la morte. Sì, può essere donata.

Ha letto di quei due casi recenti? Il ragazzo italiano di 17 anni che si è risvegliato dopo alcuni mesi di coma prima che gli venissero espiantati gli organi; e poi la donna musulmana che si è risvegliata dal coma dopo circa 27 anni.
Sì, il caso del ragazzo che si è risvegliato riguarda proprio la "morte cerebrale", ci sono un sacco di casi simili. Il professor Shewmon, già nel 1998, ha pubblicato una raccolta di pazienti detti "cerebralmente morti" che continuavano a vivere, perché per una ragione o per l'altra non venivano sottoposti all'espianto di organi. Perché una volta che viene dichiarata la "morte cerebrale" interviene un team per la raccolta di organi. Non sappiamo quanti pazienti cerebralmente morti possano di fatto sopravvivere perché quando uno ha una diagnosi di "morte cerebrale", specialmente se è giovane, sarà mandato per l'espianto degli organi: significa che in quel momento sei vivo, ma ti rimuovono il cuore e muori.

C'è un rischio maggiore per i giovani?
Non soltanto per i giovani e i bambini, ma diciamo per tutti coloro che hanno meno di 60 anni. Avanzando con l'età gli organi diventano meno buoni.

Sta seguendo il caso di Vincent Lambert?
Sì, il suo stato è chiamato "di minima coscienza". A livello più profondo si parla di coma da "morte cerebrale", poi un livello meno grave è lo "stato vegetativo permanente". Lo "stato di minima coscienza" è una situazione ancora meno grave, significa che tu hai coscienza ogni tanto di chi sei e coscienza di ciò che ti circonda e delle altre persone. Vincent Lambert è capace di mangiare, assumere e assorbire nutrienti, cibo, acqua, ossigeno, e il suo corpo li metabolizza, cioè produce urine, feci. Una persona vivente in carne e ossa, insomma.

In che modo la mentalità, la cultura della "morte cerebrale" c'entra con l'eutanasia che vogliono imporre a Vincent?
La connessione è a livello filosofico. La filosofia cartesiana si basa sul "Cogito ergo sum", cioè la mente sopra - contro - il corpo, come se fossero separati. La mente è come il boss. Fino a quando la mente funziona, tu hai l'autodeterminazione e puoi avere assoluta autonomia: se hai autonomia assoluta puoi decidere per la tua morte, questo ti dicono, cioè puoi commettere suicidio o puoi avere eutanasia volontaria. Che cosa succede se la tua mente non funziona più perché vai in coma, perché hai demenza o uno stato di minima coscienza? Quel che resta è il tuo corpo, una cosa, dal punto di vista di coloro con una mentalità cartesiana. Le cose non hanno diritti, e uno dei diritti che abbiamo è il diritto alla vita. Un dottore che guarda al tuo corpo come se fosse una cosa non ti riconosce più il diritto alla vita e pensa di poterti gettare nella spazzatura. Questo significa che ti può uccidere, anche con un'eutanasia non voluta dal paziente. Lambert è "inutile", e un "peso" per la società, secondo il pensiero moderno che nel solco della filosofia cartesiana ti guarda come una cosa. Si tratta del dualismo cartesiano più l'utilitarismo. Questo approccio filosofico connette la "morte cerebrale", l'eutanasia e Lambert.

Se si riesce a far passare il concetto che i pazienti come Vincent possano essere uccisi con l'eutanasia, coloro che promuovono la "morte cerebrale" o la "morte a cuore fermo" riusciranno ad avere anche più organi?
Già abbiamo la pratica dell'eutanasia per ottenere gli organi, in Belgio e Olanda. L'eutanasia con donazione degli organi esiste già dal 2005 ed è accettata dall'European Transplant Network. Non è molto praticata, non è ancora ampiamente accettata, ma esiste.

Eutanasia (per ottenere organi) anche involontaria?
Questo non lo so. Perché non sono cose molto pubbliche.

Andiamo alla Chiesa. Lei, al convegno romano, ha tenuto anche una seconda relazione in cui, basandosi sul discorso fatto dal Papa alla Società dei trapianti nel 2000, chiede: Giovanni Paolo II approvò la morte cerebrale?
No, il Santo Padre non l'ha approvata. La sua dichiarazione contiene due importanti parole: "se" e "appare". La parola "se" è un condizionale, che significa che la sua cosiddetta approvazione è un'approvazione condizionata, del tipo che richiede che alcune condizioni vengano prima adempiute. Intanto vediamo la frase problematica. Lui disse: «... il cosiddetto criterio "neurologico", vale a dire la rilevazione, secondo parametri ben individuati e condivisi dalla comunità scientifica internazionale, della cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica [...]; si può affermare che il recente criterio di accertamento della morte sopra menzionato, cioè la cessazione totale e irreversibile di ogni attività encefalica, se applicato scrupolosamente, non appare [grassetto nostro, ndr] in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica».

Ci sono diversi problemi con la dichiarazione di Giovanni Paolo II. Primo, come possono i parametri (cioè, i criteri di test clinici eseguiti al capezzale) essere chiaramente determinati se non sono mai stati convalidati? Non c'è stata alcuna convalida di nessuno dei test clinici prima dell'introduzione del protocollo sulla "morte cerebrale" da parte di Harvard. In secondo luogo, come poteva il Papa parlare di parametri "condivisi dalla comunità scientifica internazionale" quando perfino i sostenitori della "morte cerebrale" hanno ammesso che questo consenso manca? Senza la suddetta convalida e senza alcun consenso, come possono i criteri dei test clinici essere scrupolosamente applicati? Come possono i criteri dei test clinici indicare "un'irreversibile cessazione di tutta l'attività cerebrale" quando molti pazienti, diagnosticati come "cerebralmente morti" (sulla base dei test clinici eseguiti al capezzale), presentano secrezione dell'ormone antidiuretico (ADH) prodotto dall'ipotalamo-ipofisi nel cervello? Inoltre, molti pazienti "cerebralmente morti" mostrano riflessi e movimenti spontanei; possono anche avere sudore abbondante, tachicardia e crescita della pressione sanguigna in reazione all'incisione della pelle e sternotomia al momento dell'espianto degli organi.

Giovanni Paolo II, appunto, usò prudenzialmente le parole "se", una condizione da adempiere, e "non appare" che evidentemente non equivalgono a dire "è". Quel che "appare" oggi può "apparire" in modo diverso domani. Il quadro di riferimento, inoltre, è per forza quello cristiano. In aggiunta, quando lui parla di "elementi essenziali di una corretta concezione antropologica" si riferisce all'antropologia tomistica, ma san Tommaso non ha mai detto che il cervello è il 'master' integratore del corpo. Mentre alla base della "morte cerebrale" c'è l'idea che il cervello è il 'master' integratore e senza questo l’organismo umano muore: questo non ha senso, non è antropologia cristiana. Piuttosto, è dualismo cervello-corpo, che è simile al dualismo cartesiano mente-corpo. Il dualismo cervello-corpo è inquadrato in un ordine strettamente materialistico.

In sostanza, Giovanni Paolo II non fece una dichiarazione con valore magisteriale, ma secondo lei perché pronunciò quella frase, per quanto dubitativa, errata?
Il problema di base con quel discorso del 2000 è che non guardava alla letteratura in medicina, bioetica, filosofia, già disponibile dal 1997-1998. Inoltre, nel 1995, l'Accademia Americana di Neurologia (AAN) pubblicò delle linee guida per dire che i movimenti spontanei e riflessi in una persona "cerebralmente morta" sono da ignorare. Un'affermazione gravissima. La Chiesa cattolica nel 2000 avrebbe già dovuto avere consapevolezza di questo documento: lì c'è scritto proprio che la persona con "morte cerebrale" ancora si può muovere, quindi l'anima è ancora dentro al corpo. Questo significa che i criteri della morte cerebrale sono incompatibili con l'antropologia della Chiesa.

Dunque, Giovanni Paolo II era all'oscuro di questa dichiarazione del 1995?
Presumibilmente il Santo Padre non era a conoscenza del documento dell'AAN del 1995. Questo significa che fu fuorviato dalle persone con la responsabilità di consigliarlo. In ogni caso, propriamente parlando, non si può fare un pronunciamento morale senza un'adeguata conoscenza dei dati fattuali. Anche lo stesso Giovanni Paolo II ha affermato che la Chiesa ha il dovere e la competenza di "comparare i dati offerti dalla scienza medica con la comprensione cristiana dell'unità della persona". Nel campo della bioetica, una completa indagine bioetica deve seguire un approccio triangolare: primo, iniziare con i dati empirici riguardanti la controversia; poi, considerare le antropologie sottostanti; e infine, fare una conclusione etica.

Ora, i promotori del concetto di morte cerebrale hanno un'antropologia completamente diversa da quella della Chiesa, e cioè un'antropologia cartesiana. La più grande mancanza del discorso del 2000 è che non prendeva in considerazione i dati fattuali; non prendeva in considerazione le diverse pubblicazioni sulla "morte cerebrale" pubblicamente disponibili prima del 2000. Non prendeva in considerazione il duplice principio assiomatico che un intero organico (= un intero vivente) è maggiore della somma delle sue parti, e viene ontologicamente prima delle sue parti. Il corollario di questo assioma è che nessuna parte può spiegare sé stessa, figuriamoci l'intero.

Insomma, commise un errore ma ebbe la prudenza di enunciarlo con una formula dubitativa.
Sì, infatti. E l'altra cosa che bisogna tenere presente è che questo discorso d'indirizzo lo tenne una sola volta, senza più ripeterlo né citarlo. Inoltre, nella gerarchia del Magistero ordinario, il discorso del 2000 appartiene alla categoria degli interventi di ordine prudenziale; questa categoria è di un rango molto più basso delle encicliche (per esempio la Veritatis Splendor). L'importanza di un particolare insegnamento magisteriale ordinario dipende sia dal rango del documento sia dalla frequenza con cui il Magistero lo insegna.

Arriviamo alla dichiarazione di Benedetto XVI nel 2008. Perché è importante quella dichiarazione?
Perché dice che possiamo fare l'espianto degli organi soltanto ex cadavere, e questa espressione ex cadavere - già usata tra l'altro nel discorso di Giovanni Paolo II - vuol dire dopo la morte vera. Per capire il pensiero di Benedetto XVI dobbiamo risalire al 1991, quando da cardinale parlò di "cadaveri caldi" sfruttati per "rispondere alle domande di trapianto d'organo". Lui disse: “Quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma 'irreversibile’, saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d’organo […]”. Benedetto XVI ha anche una copia del mio libro, The New Definitions of death for Organ Donation. A Multidisciplinary Analysis from the Perspective of Christian Ethics.

Professoressa, Giovanni Paolo II mostrò poi di cambiare idea o quantomeno di nutrire dei dubbi sulla "morte cerebrale", tant'è che convocò per il 2005 un incontro alla Pontificia Accademia delle Scienze, già allora retta dal cardinale Sorondo. Che successe? Molti esperti avevano spiegato che la morte cerebrale non equivale alla morte vera, però perché queste conclusioni non vennero pubblicate?
Eh, il problema è che c'è la politica dentro le mura del Vaticano. I partecipanti avevano concluso a maggioranza che la morte cerebrale non è la morte. All'ultimo momento la pubblicazione degli atti venne annullata, senza ragione. E poi, poco dopo, i capi della PAS hanno organizzato un'altra conferenza per il novembre 2006, con lo stesso nome, "I segni della morte", invitando soltanto quelli che sostenevano la morte cerebrale. Un paio di settimane prima, Benedetto XVI, appena saputa la cosa, aveva mandato il suo segretario per chiedere di invitare Shewmon e Spaemann. Shewmon aveva già un altro appuntamento, mentre Spaemann partecipò. La PAS considerò sia Shewmon che Spaemann come dissenzienti. La PAS, che non ha autorità magisteriale, pubblicò quindi la sua dichiarazione che si intitola "Why the concept of brain death is valid as a definition of death", in cui afferma che la morte cerebrale è vera morte. Ma abbiamo visto che così non è.


* In base alla terminologia adottata, si usano anche le sigle DCCD (donation after controlled cardiac death) e DCD (donation after circulatory death); l'acronimo NHBD (non-heart-beating donor) indica invece il donatore di cui si dichiara "la morte a cuore fermo".