Padre Abdo Raad: l'odissea dei prigionieri libanesi in Siria
Circa 600 libanesi sono scomparsi, durante e dopo la Guerra Civile, finiti nell'inferno delle carceri siriane di Assad. Padre Abdo Raad, sacerdote libanese greco-melkita, presidente del Consiglio nazionale per i servizi sociali in Libano, si occupa da quindici anni della questione dei prigionieri. In questa intervista parla di una realtà poco conosciuta e della speranza dei famigliari per il loro rientro dopo la fine del regime e l'apertura delle prigioni.
Aprire le prigioni è stato tra i primi atti di forza che gli uomini di Hayat Tahrir al Sham hanno compiuto dopo essersi impadroniti della Siria nelle scorse settimane. Simbolo stesso del regime, il sistema carcerario degli Assad era tristemente noto per le torture, le esecuzioni, il trattamento inumano dei prigionieri di cui spesso non si sapeva più nulla. Anche il Libano ha pagato il suo tributo alla Siria in termini di vite umane risucchiate dal buco nero delle carceri di regime.
Secondo l'Associazione dei prigionieri politici libanesi nelle carceri siriane, negli anni dell'occupazione siriana del Libano tra il 1976 e il 2005 più di 600 cittadini libanesi furono rapiti e portati nelle prigioni siriane con l'accusa di essere nemici del regime di Assad. Ora che le porte delle carceri sono state abbattute e migliaia di prigionieri si sono riversati nelle città, le famiglie libanesi che hanno subito rapimenti hanno ricominciato a sperare di ritrovare in vita i loro cari scomparsi. Molti si sono già recati in Siria a cercarli, mentre qualche prigioniero ha fatto ritorno in autonomia: liberato dopo trentadue anni di detenzione, Suleil Hamawi è tornato a Chekka nel nord del Libano il 9 dicembre scorso. La sua famiglia lo ha aspettato per tutto questo tempo nella stessa abitazione dove nel dicembre 1992, a guerra ormai finita, fu rapito dall'intelligence siriana. Oggi sessantenne, all'epoca del rapimento Hamawi era un giovane membro delle Forze Libanesi, partito cristiano che si opponeva all'occupazione siriana. E proprio l'appartenenza al partito, che negli anni della guerra civile aveva anche una propria milizia, segnò la sua condanna. Hamawi stesso ha raccontato ai media che la notte di Santa Barbara, una festa particolarmente sentita nel cristianesimo orientale, un uomo si presentò al suo negozio chiedendo del whiskey: neanche il tempo di soddisfare la richiesta che fu fatto entrare in una macchina da uomini armati e portato in Siria. Il primo anno di detenzione lo passò, secondo il suo racconto, nel carcere di Saydnaya, tristemente noto come "mattatoio di esseri umani", per poi essere spostato varie volte, fino a giungere a Latakia. Quando domenica 8 dicembre gli uomini di HTS hanno aperto la porta della sua cella, Hamawi è stato aiutato dagli abitanti della città a raggiungere Arida, il vicino varco di frontiera col Libano dove la sua famiglia lo attendeva. Non tutti i prigionieri, però, sono stati fortunati come lui; si calcola che la maggior parte dei rapiti siano morti in mano siriana. Per inquadrare meglio il fenomeno chiediamo una testimonianza a padre Abdo Raad, sacerdote libanese greco-melkita che ha vissuto in Libano gli anni della guerra civile prima di spostarsi in Siria e quindi in Italia.
«Uno degli orrori della guerra civile libanese è stato il rapimento di persone in base alla loro appartenenza religiosa, per utilizzarle come merce di scambio tra le milizie in guerra» afferma padre Raad. «Molte di queste persone si sono perse nell'oscurità delle prigioni e dei centri di detenzione mobili non ufficiali. L’occupazione siriana del Libano e lo scontro tra il regime siriano e alcune fazioni libanesi, in particolare cristiane, hanno provocato il rapimento di numerose persone gettate nelle carceri di Assad, dove il loro destino è nella maggior parte dei casi tuttora sconosciuto. Ricordo che quando ero ragazzo alcune donne venivano con una tazza di caffè a chiedere a mia madre di guardarne il fondo per sapere la sorte dei loro figli rapiti. Mia madre piangeva di fronte a questa tragedia, ascoltava le lamentele di mamme e sorelle e cercava di rassicurarle che, a Dio piacendo, i loro cari sarebbero tornati; pertanto fin dalla prima giovinezza sono stato legato a questa tragica questione. Poi, quando nel 2010 sono stato eletto presidente del Consiglio nazionale per i servizi sociali in Libano, ho conosciuto direttamente i membri del Comitato delle famiglie delle persone rapite e scomparse in Libano che si battono per conoscere il destino dei loro cari. Riconosciuto come associazione dal Ministero degli Interni nel 2000, in realtà il Comitato era nato già nel 1982 grazie a Wadad Halawani, una donna a cui era stato rapito il marito. Il comitato è formato da madri, padri, mogli, figli e fratelli di coloro che furono rapiti e dispersi durante la guerra civile; l'obiettivo principale è conoscere la sorte di tutte le persone rapite e scomparse, soprattutto in Siria e Israele, liberare i vivi, recuperare i resti dei morti e rivendicare i diritti dei prigionieri e quelli delle loro famiglie».
Dopo la clamorosa notizia dell'apertura delle prigioni siriane, il Comitato si è radunato la settimana scorsa in un parco di Beirut con le foto dei cari scomparsi, cominciando un frenetico lavoro di raccolta di informazioni, ora che il regime di Assad è caduto. Anche il governo libanese uscente si è mosso, scontrandosi però con la mancanza in questo momento in Siria di istituzioni ufficiali che possano collaborare. Lo stesso ex prigioniero Hamawi sta ricevendo in questi giorni centinaia di richieste di informazioni ma, come ha dichiarato alla stampa, è di poco aiuto: non conosce infatti i nomi dei suoi tanti compagni di prigionia, ma solo i numeri con cui erano chiamati.
Chiedo a padre Abdo come mai sia così complicato ricostruire la sorte di questi prigionieri.
«Le carceri nella Siria di Assad erano luoghi altamente corrotti in cui, oltre al resto, i prigionieri venivano sfruttati e le loro famiglie ricattate: in cambio di denaro venivano date notizie false e fatte false promesse. L’ho sperimentato in prima persona quando ero parroco a Damasco. Inoltre, i regolamenti ufficiali delle carceri siriane non sono chiari e il governo di Assad era impenetrabile su questo argomento. Negli anni alcuni prigionieri libanesi sono stati liberati, ed ogni volta il regime di Assad dichiarava che nessun altro cittadino libanese era più detenuto nelle carceri siriane. Nel 2000 la Siria liberò 54 prigionieri libanesi, che il governo stesso di Assad aveva precedentemente dati per morti. Insomma, un caos totale».
Il 10 dicembre scorso il Ministro dell'Interno libanese uscente Bassam Mawlawi ha annunciato il ritorno in Libano di altri nove prigionieri liberati dalle prigioni siriane. Chiedo a padre Abdo se sia ottimista sul ritorno in patria di altri libanesi.
«Una decina di prigionieri sembra siano tornati, ci sono varie notizie sulla liberazione di altri ma ancora nessuna certezza. C'è invece un'alta probabilità che molti di essi siano morti, tra cui un numero significativo di cristiani appartenenti a partiti che hanno combattuto contro l'occupazione siriana del Libano: Forze Libanesi, Kataeb, National Liberal Party. Alcune associazioni per i diritti umani stimano che il regime di Assad abbia giustiziato circa 13.000 prigionieri durante gli anni della guerra civile siriana, inclusi sacerdoti e vescovi, mentre è sconosciuto il numero delle persone morte sotto tortura o per abusi o malattie. Non penso che molti prigionieri libanesi torneranno a casa nei prossimi mesi. Se i numeri fossero stati alti sarebbe stato evidente subito dopo l’apertura delle carceri. Invece sono state trovate migliaia di corpi, si parla di centomila, nelle fosse comuni. Ci auguriamo che il nuovo governo in Siria cerchi i luoghi di sepoltura dei prigionieri e sottoponga i loro resti al test del DNA: è un diritto delle loro famiglie saperlo».
Chiedo a padre Abdo quali saranno gli effetti sul Libano della cacciata diforze Assad dalla Siria.
«Un buon numero di rifugiati siriani tornerà in madrepatria, il che allenterà un po’ la tensione interna in Libano. Tra circa un mese finisce la tregua di sessanta giorni tra Hezbollah e Israele e penso che un ritorno della guerra sia ora più difficile perché la milizia sciita, oltre ad aver perso una parte importante dei suoi leader e dei suoi uomini, non può più far arrivare le armi attraverso la Siria. Hezbollah manterrà solo il suo braccio politico, ed uno dei risultati di questo depotenziamento potrebbe essere la pace con Israele, o almeno la delimitazione dei confini. Non credo invece che la situazione politica ed economica del Libano migliorerà, perché il problema è la corruzione della maggior parte dei nostri governanti. Sfortunatamente, i Paesi stranieri stanno ancora trattando con questa cricca corrotta che ha portato il Paese al collasso economico e alla bancarotta politica. Affinché il Paese possa svilupparsi occorre che chi lo governa sia indipendente da appartenenze religiose; penso che questo scenario sia ancora lontano e che il Libano continuerà a soffrire, in un modo o nell'altro».
Infine, cosa dobbiamo aspettarci dal regime change in Siria?
«Le fazioni che hanno preso il controllo del Paese si basano su ideologie religiose, il che non promette nulla di buono. Ad aggravare la situazione, nelle ultime settimane Israele ha iniziato ad espandersi in Siria, senza che a livello internazionale sia stato preso nessun provvedimento. Penso che il Paese sarà diviso, anche se non legalmente, in molteplici aree di influenza, come l'Iraq e la Libia. Forse ci sarà una conferenza per trovare un accordo tra le fazioni e le potenze internazionali allo scopo di dividere influenza e ricchezza. Speriamo… Questa è sempre la mia ultima parola, speriamo in ogni bene ed operiamo per la sua realizzazione».