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COVID-19

Obbligo vaccinale, manca il presupposto della salute altrui

La Corte costituzionale si è espressa più volte in materia di vaccinazione obbligatoria, precisando che l’imposizione del trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 della Costituzione solo se ricorrono tre presupposti. Le evidenze scientifiche sui vaccini oggi autorizzati, poco efficaci nel prevenire la diffusione del Covid-19, mostrano la mancanza già del primo presupposto espressamente richiesto dalla Consulta, ossia il “preservare lo stato di salute degli altri”.

Attualità 22_12_2021

In materia di vaccinazione obbligatoria la Corte costituzionale si è espressa più volte, elaborando un copioso percorso interpretativo e operando un bilanciamento dei diritti e dei doveri che le disposizioni costituzionali prevedono in capo al cittadino. La norma di riferimento è certamente l’art. 32 della Costituzione che così recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

La Costituzione consente, per legge, l’imposizione di un obbligo a sottoporsi ad un trattamento sanitario, al fine di salvaguardare il fondamentale diritto alla salute del singolo e della collettività. La giurisprudenza della Corte costituzionale è salda nell’affermare che l’art. 32 Cost. imponga il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto alla salute degli altri e con l’interesse della collettività. A partire dalle sentenze n. 307 del 1990 e n. 258 del 1994, la Consulta ha precisato che il trattamento sanitario, reso obbligatorio per legge, non è incompatibile con l’art. 32 della Costituzione ove ricorrano tre presupposti:

a) «se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale;

b) se vi sia la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili;

c) se nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio - ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica - sia prevista comunque la corresponsione di una “equa indennità” in favore del danneggiato».

Il contenuto concettuale espresso da questi tre criteri interpretativi si è consolidato nella giurisprudenza della Corte costituzionale, tanto da essere richiamato nella più recente sentenza n. 5 del 2018, ove la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del decreto-legge 7 giugno 2017, n. 73 (convertito dalla legge 31 luglio 2017, n. 119), che ha introdotto ulteriori vaccinazioni obbligatorie in età pediatrica e adolescenza, portandole da quattro a dieci.

Esaminiamo il primo presupposto di compatibilità con la Costituzione. Esso si realizza allorquando il trattamento sanitario reso obbligatorio dalla legge preserva e tutela non solo la salute personale (del soggetto che vi si sottopone), ma altresì la salute degli altri (collettività). Tale presupposto costituisce un corollario del più ampio dovere di solidarietà previsto dall’art. 2 Cost., a tenore del quale “La Repubblica […] richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Riguardo al vaccino anti Covid-19, si può ritenere che l’interesse pubblico di tutela della salute collettiva risulti soddisfatto ove il trattamento sanitario sia efficace, non solo nel prevenire l’insorgere della malattia (in forma lieve o severa) in chi vi si sottopone (funzione protettiva di sé stessi), ma anche e soprattutto nel prevenire un’infezione dal virus e conseguentemente sia in grado di impedire la trasmissione (agli altri) dell’infezione virale, ovvero di impedire il contagio (funzione protettiva degli altri). Nel vagliare la sussistenza dei presupposti costituzionali con riferimento all’efficacia e alla sicurezza del vaccino anti-Covid, si farà qui di seguito ricorso ai dati provenienti dalle informazioni ufficiali, veicolate dalle competenti autorità pubbliche nazionali e sovranazionali, nello specifico l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA), i soli che sarebbero presi in considerazione per fondare una declaratoria di illegittimità costituzionale dei provvedimenti impositivi dell’obbligo vaccinale da parte della Corte costituzionale[1].

Ebbene, circa il primo requisito - funzione protettiva individuale - i dati pubblicati dall’EMA relativi alla sperimentazione clinica dei prodotti vaccinali somministrati in Europa (e sui quali l’Agenzia Europea ha fondato la propria autorizzazione all’immissione in commercio) hanno rilevato un’elevata efficacia nella prevenzione della malattia da Covid-19 (in termini di riduzione dei casi sintomatici) che oscilla dal 60 al 95%, a seconda del vaccino utilizzato: 95% di efficacia del vaccino Comirnaty (Pfizer-BioNtech), 94,1% di Spikevax (Moderna), 67% di Janssen (Johnson & Johnson); 60% di Vaxzevria (AstraZeneca). Tuttavia, ad oggi, mancano sicure evidenze scientifiche sul requisito dell’efficacia del vaccino in termini di prevenzione dell’infezione e della trasmissione del virus e/o impedimento del contagio, considerato che, stando ai medesimi dati rilevati e pubblicati, la stessa EMA riconosce che: “L’impatto della vaccinazione con Comirnaty sulla diffusione del virus SARS-CoV-2 tra la popolazione non è ancora noto. Non si conosce ancora fino a che punto i soggetti vaccinati possano ancora essere portatori del virus e in grado di diffonderlo”. Identiche dichiarazioni sono riportate dall’Ema nei documenti sui vaccini Spikevax, Janssen e Vaxzevria.

In base ai rapporti settimanali pubblicati dall’ISS nel periodo settembre-ottobre 2021, si è rilevata in Italia una riduzione del rischio di infezione da Covid-19 nelle persone completamente vaccinate (rispetto a quelle non vaccinate) intorno al 77-78% per la diagnosi, e oscillante dal 91% al 97% per l’ospedalizzazione, per i ricoveri in terapia intensiva e per i decessi (si vedano i bollettini della sorveglianza integrata Covid-19 del 1°, 8, 15, 22 e 29 settembre 2021 e del 6, 13, 20 e 27 ottobre 2021). Quindi, stando ai dati pubblicati dall’ISS, se il vaccino ha un’elevata efficacia nel prevenire i casi di malattia grave (tale da comportare la necessità di ospedalizzazione) e i decessi (superiore al 90%), tuttavia ha un’efficacia solo “discreta” (77-78%) nella prevenzione dell’infezione. E infatti, stando a questi dati, anche le persone che hanno completato il ciclo vaccinale presentano un rischio del 20-25% di contrarre l’infezione e di trasmetterla agli altri. Ciò significa che un vaccinato su 4 non è protetto ed è potenzialmente “infettivo”.

A ciò si aggiunga che non risultano evidenze scientifiche certe nemmeno sulla durata della protezione del vaccino, considerato che i rapporti sull’efficacia del vaccino approvati e pubblicati dall’EMA evidenziano che “al momento non si conosce la durata della protezione conferita”. Gli ultimi rapporti dell’ISS mostrano che, a sei mesi dal completamento del ciclo vaccinale, l’efficacia del vaccino nel prevenire qualsiasi diagnosi sintomatica o asintomatica di Covid-19 (rispetto ai non vaccinati) scende, addirittura dimezzandosi, dal 72% al 40% (vedi qui) e in soli cinque mesi, secondo l’ultimo bollettino del 15 dicembre 2021, dal 73% al 35% (vedi qui). I dati dell’ISS confermano la progressiva e non trascurabile perdita di efficacia nel tempo della protezione del vaccino dall’infezione del Covid-19, evidenziando che i vaccinati, quanto più si allontanano dalla somministrazione del vaccino, possono contrarre l’infezione e trasmetterla agli altri. A soli 5 mesi dalla somministrazione del vaccino (si noti che gli ultimi rapporti dell’ISS prendono in considerazione una fascia temporale inferiore a 6 mesi) più della metà della popolazione vaccinata non è protetta ed è potenzialmente “infettiva”. Questo significa che, per avere accettabili livelli di efficacia del vaccino nella protezione dal Covid-19 (almeno superiori al 50%), la popolazione dovrebbe essere vaccinata in un arco temporale ancora più stretto: ogni 2-3 mesi? Si consideri che ad oggi la terza dose di vaccino è consentita (e raccomandata) solo dopo 5 mesi dal completamento del ciclo vaccinale.

I dati diffusi da EMA e ISS dimostrano, dunque, che il vaccino non è in grado di garantire - non solo in termini certi e assoluti, ma nemmeno in termini soddisfacenti e/o ragionevolmente accettabili - un’efficacia nella protezione dell’infezione e conseguentemente nella prevenzione della diffusione e trasmissione del Covid-19. Così, viene a mancare il requisito della funzione protettiva degli altri (funzione di sanità pubblica), quale presupposto costituzionale per l’imposizione del trattamento sanitario. Infatti, se anche i vaccinati (seppure in misura minore e non ancora sufficientemente e scientificamente precisata nel “quantum”) possono contrarre l’infezione e diffondere il virus e contagiare gli altri - evento peraltro notorio secondo l’esperienza comune -, viene meno la ragionevolezza dell’imposizione di un trattamento sanitario inidoneo a svolgere la funzione di tutela dell’intera collettività.

Anzi, l’imposizione di un trattamento sanitario che ha un’efficacia soltanto parziale e approssimativa nella prevenzione e diffusione del virus, accompagnato da un’inadeguata e scorretta informazione, può ingenerare l’errato convincimento che il vaccino protegga dall’infezione del virus ancor meglio di altre misure (distanziamento, utilizzo di mezzi di protezione, ecc.), favorendo il proliferare di focolai proprio fra soggetti vaccinati, col rischio che l’obbligo vaccinale produca l’effetto opposto a quello di tutela della sanità pubblica.

A ciò si aggiunga che il vaccino, a differenza del tampone che fotografa lo stato di salute della persona in tempo reale (fatti salvi i limiti alla sua attendibilità), non garantisce che la persona vaccinata sia negativa al virus, con la conseguenza che il soggetto “vaccinato”, godendo di piena libertà di svolgimento delle attività sociali, per effetto dell’ampia validità del green pass, costituisce potenzialmente un maggior pericolo rispetto al soggetto “controllato dal tampone” nella diffusione del virus. Ciò spiega perché sono vigenti in ambito regionale o locale protocolli che prevedono che gli operatori sanitari si sottopongano periodicamente a test diagnostici di ricerca del Covid-19, in adesione alle indicazioni dell’ISS (vedi il rapporto ISS Covid-19 n.4/2021), nonostante, per legge, siano tutti vaccinati. E spiega altresì il moltiplicarsi di interventi governativi volti ad imporre l’obbligo del test anche ai soggetti vaccinati (si pensi all’ordinanza che impone il tampone per chi arriva in Italia dai Paesi dell’UE, anche se vaccinato), chiaro “sintomo” dell’inadeguata efficacia del vaccino come misura di contrasto alla diffusione dell’epidemia.

Dunque, allo stato delle conoscenze ed evidenze scientifiche, considerata la scarsa efficacia del vaccino nel prevenire la diffusione del Covid-19, unitamente alla sussistenza di dati approssimativi e incerti, non risulta essere soddisfatto il primo presupposto (tutela della sanità pubblica) che la Costituzione postula per il trattamento sanitario obbligatorio. Infatti, i vaccini anti-Covid ad oggi in uso non offrono garanzie di “preservare lo stato di salute degli altri”, come espressamente e specificamente richiesto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.

 

[1] Ciò in conformità all’indirizzo espresso dalla giurisprudenza amministrativa laddove ha evidenziato di prendere in considerazione, per fondare il proprio convincimento, le sole informazioni ufficiali trasmesse dalle competenti autorità pubbliche (vedi TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 261/2021, punto 8.2).